18 gennaio 2005
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Pawlowski Jerzy
• Nato a Varsavia (Polonia) il 25 ottobre 1932, morto a Varsavia l’11 gennaio 2005. Schermidore. «Chissà se John Le Carré o qualche autore di feuilleton sulla guerra fredda avrebbe ardito imbastire una storia come quella vissuta in prima persona da Jerzy Pawlowski, uno dei più grandi schermidori di tutti i tempi [...] Una vita di glorie sportive, onori e privilegi attraversata da accuse, condanne, confessioni, ritrattazioni e 10 anni di dura prigionia nelle carceri della sua Polonia per spionaggio a favore dell’Occidente. Una colpa mai del tutto chiarita, infarcita di testimonianze contraddittorie, ammissioni, requisitorie, doppigiochi veri o presunti, confusi, rinnegati, manipolati. Chissà. Misteri che Pawlowski stesso ha alimentato. E che si è trascinato nella tomba. [...] nel dopoguerra è uno studente di giurisprudenza. Prima ancora di laurearsi, ha intrapreso la carriera militare. Si iscrive al partito. Dal circolo ufficiali approda alla sciabola: perché in Polonia, terra di tradizione cavalleresca, il fioretto e la spada sono a quel tempo considerate armi per educande e principianti. Pawlowski e i suoi compagni di squadra hanno la sorte di trovare sulla loro strada un grande maestro di scherma, János Kevey, fuoriuscito dall’Ungheria dove è bollato di collaborazionismo con i tedeschi. La sciabola polacca è di scuola militare, ma l’Ungheria schermistica è insuperabile. Seguita a ruota da Italia e Francia. Accuditi da Kevey, però, i polacchi scalano posizioni grazie a un gruppo di sciabolatori che conquista il bronzo a squadre nel mondiale ’53 e un argento olimpico a Melbourne sull’Italia. Pawlowski è l’atleta di punta di quel team: si aggiudica anche l’argento individuale. Nel ’57 il suo primo colpo grosso: ai mondiali vince l’oro su una schiera di sbigottiti magiari che, per la prima volta dal 1920, non salgono sul podio più alto. Arriva anche il primo colpo di scena nella parabola di Pawlowski che, a nome della squadra, sfiducia il tecnico ungherese. Kevey viene esonerato dalla Federazione e ripara a Torino. La sua partenza scioglie le briglie ai polacchi che nei primi anni ’60 arrivano a dominare la scena facendo incetta di titoli iridati. Pawlowski è il più bravo: gioco di gambe, velocità di esecuzione, inventiva, audacia, scaltrezza. Nel ’62 regala alla squadra l’oro facendo indispettire di istrionerie l’ungherese Horváth. Sa accattivarsi le simpatie di pubblico e arbitri. Solo le Olimpiadi sono stregate per i polacchi: a Roma perdono l’oro per mano dei magiari. Pawlowski fallisce l’individuale pure a Tokyo (ancora argento) ma l’anno successivo mette sulla testa il suo secondo alloro mondiale, ribadito l’edizione seguente. Messico ’68: Pawlowski si qualifica tra i finalisti in un lotto con due russi, Rakita e Nazlimov; l’italiano Rigoli; il campione olimpico uscente Pésza, ungherese. La finalissima tra il polacco e Rakita è tiratissima, il sovietico passa in vantaggio; Pawlowski rimonta, para le stoccate dell’avversario e lo infila per conquistare il primo oro olimpico individuale nella storia della scherma polacca al termine di un duello considerato fra i più emozionanti di sempre. Atleta inossidabile rimane in pedana fino al ’73 quando a Göteborg, all’età di 42 anni, è finalista iridato per la 18ma volta con 8 podi in calmiere (3 ori, 4 argenti, 1 bronzo). A Monaco aveva collezionato la sesta partecipazione ai Giochi. Sono anni dorati per il colonnello Pawlowski. Circondato dal lusso e dalle donne, è personaggio mondano e charmant come un ussaro di celluloide, viaggia all’estero, scrive la sua autobiografia, è agiato come pochi nel suo paese: possiede una Mercedes, un allevamento, un maxi appartamento nella capitale, quote di proprietà in varie attività. Invece di invidiarlo, i polacchi lo adorano: ”se lo merita, è un eroe nazionale”. Finchè non viene colpito da un fendente più basso e lacerante del micidiale ”taglio Nyzkiem” (quello che nel tennis sarebbe un rovescio tagliato) inventato dai cavalieri dell’aquila bianca nel XVIII secolo: un ex-collaboratore della Cia, Philip Agee, lo accusa - pur senza farne il nome - di essere una spia degli americani nel suo libro Inside the Company: CIA Diary. il 1975. La parabola discendente aveva già preso la sua china l’anno precedente quando era stato arrestato dalle forze di sicurezza a Mosca. L’amico generale Jaruzelski, all’epoca ministro della Difesa, intercesse personalmente in suo favore reclamando una montatura: l’ufficiale non era assolutamente una spia, tutt’altro. Secondo una versione del suo ex-compagno di squadra dell’epoca d’oro, Czajkowski, medico, allora tecnico della nazionale, Pawlowski era stato accusato da una spia della Nato nel ’74. Fatto sta che il primo scossone contro il monumento nazionale Pawlowski è attutito dal cuscinetto protettivo delle forze armate. Ma nel maggio del ’75 viene arrestato. Per la Polonia è uno choc. Il mese successivo la notizia prende il largo in Occidente. L’istruttoria è segreta e il processo si tiene a porte chiuse: essendo un militare, rischia la pena capitale. Invece la sentenza dell’8 aprile ’76 gli infligge 25 anni di carcere per spionaggio. Le voci dicono che a salvarlo, ancora una volta, è stato Jaruzelski. I suoi beni materiali sono confiscati. Le onorificenze revocate. Il nome, damnatio memoriae, cancellato dagli annali sportivi. E poco importa se nel frattempo Agee nel suo secondo libro, On the Run, abbia confusamente ritrattato i sospetti lanciati su Pawlowski, il quale ammette la colpevolezza. Dopo 10 anni di dura detenzione, entra in uno scambio di spie occorso l’11 giugno dell’85 secondo il cliché tante volte visto al cinema del transito al checkpoint Charlie. Nell’operazione gli americani includono un pezzo da novanta, Marian ”Wlodek” Zacharski, l’agente polacco di maggior prestigio, condannato nell’81 al carcere a vita negli Usa per aver trafugato segreti missilistici. Sull’aereo per Berlino, Pawlowski è taciturno, accompagnato verso l’esilio dalla terza moglie Iwonka, che ha la metà dei suoi anni. Ma sul ponte Glienicker, si sente di nuovo in pedana e mette in scena uno dei suoi imprevedibili coup de théâtre: ”Sono un patriota”, dice, e oppone il gran rifiuto di passare a Ovest. Torna nella sua Varsavia e viene affrancato. Chiede a Parulski, vecchio compagno di glorie nel dream team polacco degli anni ’60 divenuto figura di Solidarnosc e presidente della Federscherma, di potersi tesserare. Perora la sua riabilitazione sostenendo di aver subito accuse ingiuste. Il postcomunismo toglie il sigillo agli atti del processo: ma è un boomerang. Emerge che negli anni ’50 aveva spiato i colleghi per conto dei servizi segreti polacchi. Pawlowski ne esce con la reputazione più rotta di prima. Et voilà, con la teatralità che è propria all’uomo e all’arma che ha impugnato da maestro, contrattacca di flèche raccontando in un libro la sua verità. ” vero, ho fatto la spia per gli americani. Ma per il mio paese, contro i russi: volevo vendicare - sostiene nel suo guascone Najdluzszy pojedynek (Il duello più lungo) edito nel ’94 - gli ufficiali polacchi trucidati negli eccidi staliniani di Katyn; e il tradimento sovietico della rivolta di Varsavia nel ’44, quando l’Armata Rossa fermò l’avanzata sulla Vistola consentendo ai tedeschi di reprimere l’insurrezione nel sangue di migliaia di vittime”. Tenta di riaccreditarsi come nazionalista. C’era da credergli? Benché negli anni ’90 la pubblicistica sulla vicenda si sia arricchita, contraddizioni e misteri son tutti rimasti sul tappeto: Parulski opinava che fu sempre uomo venale, mosso soltanto dal denaro, ma nella terza età non correva tra i due buon sangue; un tv-documentario austriaco su Pawlowski ha rilanciato le sue ultime motivazioni; riviste tedesche e polacche hanno rispolverato la storia, rinverdita da ”L’Equipe” nel 2001; il giornalista inglese Richard Cohen ha raccolto opinioni e testimonianze dirette in un capitolo dedicato a Pawlowski nel suo L’arte della spada (in Italia per Sperling & Kupfer) uscito prima della morte dello sciabolatore, fra cui il parere dell’ex-compagno della squadra leggendaria, Wojciech Zablocki, altro grande schermidore: ”Lui ha sempre amato il rischio. Il gioco d’azzardo faceva scorrere l’adrenalina, e se poteva fruttare ancora più soldi e danneggiare i russi, tanto meglio. Il gusto del pericolo era però il punto essenziale: in fondo era questo che ne aveva fatto un campione di scherma”» (Marco Perisse, ”il manifesto” 16/1/2005).