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 2004  ottobre 03 Domenica calendario

Doveri e diritti. Secondo il diritto romano gli schiavi erano cose (res) e appartenevano al padrone

Doveri e diritti. Secondo il diritto romano gli schiavi erano cose (res) e appartenevano al padrone. Il nome stesso evidenziava questa condizione: era composto dal suffisso por (da puer, servitore) aggiunto al nome del padrone. Così lo schiavo di Lucio si chiamava Lucipor, quello di Mario Maripor. Non potevano possedere oggetti o beni, né avere una famiglia, ma solo scegliere una compagna tra le schiave. Niente teatro, né toghe (i mantelli) sopra la tunica. Le pene per chi infrangeva queste regole erano durissime: dai lavori forzati, alla flagellazione, fino alla crocifissione. Valutato in base alla sua utilità, lo schiavo che si ammalava perdeva il proprio valore e diventava un danno. Il padrone poteva cacciarlo e lasciarlo morire in strada, portarlo al tempio di Esculapio (il dio della medicina), sull’isola Tiberina, per chiederne la guarigione, oppure ucciderlo, sulla base dello ius vitae ac necis, il diritto di vita e di morte che aveva su di lui. Dalla tarda età repubblicana, sul finire del II secolo a.C., con la fine delle guerre di conquista, il numero degli schiavi smise di crescere e, di conseguenza, la loro vita migliorò, istaurandosi un vero e proprio regime di domanda e offerta. Lo schiavo si vide riconoscere un’anima e venne ammesso, pur con qualche riserva, alla pratica dei culti. Si diffuse uno spirito filantropico nei confronti dei più umili. Persino Giovenale, non proprio attento ai bisogni altrui, si lamentava in alcune satire dell’avarizia dei padroni che davano scarsi alimenti ai propri schiavi, oppure delle donne che, al minimo errore, torturavano le loro cameriere con flagelli e nerbi. Due categorie di schiavi avevano comunque sempre goduto di un trattamento di favore: i figli di schiavi (vernae), nati in casa, che formavano una élite, benché di proprietà del padrone dei loro genitori, e gli schiavi istruiti, provenienti dalla Grecia, che svolgevano attività intellettuali (pedagoghi, segretari, amministratori) e valevano circa settecento volte gli schiavi comuni. Nel III sec a.C. il poeta Livio Andronico, uno dei primi a introdurre la letteratura greca a Roma, venne condotto nella Capitale come prigioniero da Taranto, la sua patria, conquistata dai romani durante la guerra contro Pirro, e divenne schiavo della gens Livia, ricoprendo la funzione di educatore. A prescindere da queste eccezioni, i rapporti padrone-schiavo erano contrassegnati da una certa benevolenza. Il padrone era il primo interessato a mantenere i propri servi sani e forti. Racconta Plutarco che Catone il Censore (234-149 a.C.), noto tradizionalista, al momento dell’acquisto sceglieva gli schiavi più giovani, «passibili, come puledri o cuccioli di cane, di allevamento razionale e di addestramento». E infatti il trattamento doveva essere simile a quello riservato agli animali da allevamento, con qualche minore attenzione da dedicare allo schiavo perché una mucca «non si sapeva guardare da sola altrettanto bene come un essere umano» (Michael Grant). I suoi schiavi dovevano vivere in isolamento, non parlare con gli estranei, e dormire il più possibile per poter essere ben riposati e più disposti a ricevere ordini. Non solo, si dice che facesse allattare da sua moglie gli schiavi neonati, convinto che così nascesse in loro «una certa benevolenza». Era anche ossessionato dal fatto che andassero tutti d’accordo: se qualcuno commetteva un reato, organizzava un processo davanti agli altri e, in caso di colpevolezza, faceva uccidere immediatamente l’imputato. Comunque sempre dal periodo tardo repubblicano lo status dello schiavo si modificò soprattutto per via del peculium, una piccola somma, revocabile in qualsiasi momento, che il padrone gli concedeva in amministrazione. Questa cifra poteva servire per affrancarsi, oppure essere spesa, ma in tal caso i benefici delle operazioni effettuate andavano al padrone. Col passare degli anni venne elaborato un ampio apparato di leggi per regolare il trattamento degli schiavi in modo più rispettoso della dignità umana. Nei primi anni dell’impero una legge proibì ai padroni di mandarli in pasto alle belve senza giudizio. Nel 46 d.C. Claudio promulgò un editto che stabiliva l’emancipazione d’ufficio degli schiavi malati o infermi abbandonati dal loro padrone, anche per ovviare al problema delle epidemie che i cadaveri per le strade generavano. Nerone, dietro consiglio di Seneca, stabilì che il prefetto dell’Urbe accettasse e istruisse le proteste degli schiavi contro le ingiustizie dei loro padroni. Domiziano e poi Adriano proibirono la castrazione degli schiavi. Adriano eliminò anche il diritto di vita e di morte del padrone. Antonino Pio decretò omicidio ogni esecuzione capitale di schiavi compiuta dal padrone.