Varie, 16 gennaio 2005
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Veil Simone
• (Simone Jacob) Nizza (Francia) 13 luglio 1927. Politico. Ex presidente dell’Europarlamento, guida la Foundation pour la Mémorie de la Shoah • «Nell’aprile del 1945, Simone Veil e la sorella vengono liberate a Bergen-Belsen. [...] “eravamo arrivate al termine delle ‘marce della morte’, da Auschwitz, ma siamo rimaste sul posto diverse settimane. Il campo è stato bruciato coi lanciafiamme dagli inglesi, per ragioni sanitarie, e noi siamo state trasferite in una ex caserma delle Ss. Molte di noi sono morte dopo la liberazione del campo, per il tifo, per un’alimentazione inadeguata o per mancanza di cure. Penso che molte di queste donne avrebbero potuto essere salvate, ma non era una priorità. Fortunatamente, dei prigionieri di guerra francesi provenienti da uno stalag lì vicino, tra i quali c’era un medico, venuti a sapere che tra i deportati c’erano delle donne francesi, sono venuti a soccorrerci. Le autorità francesi, dal canto loro, hanno deciso di rimpatriarci solo un mese dopo. Forse perché si voleva dare la priorità al rimpatrio dei prigionieri di guerra, che erano internati da cinque anni? O forse si trattava di una forma di quarantena, per via del tifo? Non ne ho idea. Quello che so, è che mia sorella non è morta laggiù solo perché io ero là per occuparmi di lei. I prigionieri di guerra sono rientrati direttamente: noi ci abbiamo messo cinque giorni per tornare in Francia, ammassati dentro a dei camion. L’indifferenza delle autorità francesi era già allora assolutamente straordinaria. E poi siamo arrivati in Francia. Quello che avevano subito gli ebrei, lo sterminio della maggior parte di loro, non suscitava nessun interesse. L’altra mia sorella, invece, deportata a Ravensbrück in quanto membro della Resistenza, è stata festeggiata. Era un’eroina - cosa incontestabile - tutti si interessavano a lei, le facevano domande sulla Resistenza, su quello che era successo nel campo di concentramento. Forse era un modo, da parte della gente, di appropriarsi della Resistenza? Noi? Non valeva neanche la pena di provare a parlare: ci interrompevano subito! Cambiavano argomento. Certi, quando vedevano il tatuaggio che ho ancora sul braccio, dicevano: ‘Ah, ce ne sono ancora, di ebrei? Credevamo che fossero tutti morti?’. E per i nostri cari era troppo doloroso parlare di quelle cose. Noi raccontavamo delle cose spaventose, loro vedevano in che stato eravamo tornate: per loro, che ci amavano, era insopportabile. [...] È vero che c’era una grossa differenza. I partigiani si erano battuti contro i nazisti. Si erano assunti grossi rischi. Spesso erano stati torturati. Gli ebrei erano stati deportati per la sola ragione di essere nati ebrei. Questo atteggiamento nei loro confronti è durato a lungo. Negli anni Settanta, ho partecipato a un dibattito alla Sorbona sull’esistenza delle camere a gas, in risposta ai negazionisti. Mi avevano chiesto di fare un intervento. Lo storico che doveva dirigere il dibattito era reticente, ma la signora Ahrweiler, che aveva organizzato la manifestazione, insistette perché partecipassi. Al momento della redazione degli atti del dibattito, lo storico di cui sopra mi informò che il mio discorso non sarebbe figurato fra i contributi degli storici, ma solamente fra gli allegati. Stupefatta di un simile disprezzo, rifiutai. Nello stesso periodo, ci si interessava alle testimonianze e agli archivi dei carnefici, le Ss. Ma si rifiutava di interessarsi a quelli delle vittime, che non erano giudicate credibili [...] ‘Mai più questo’ è quello che dicevano i deportati. Avevamo molta paura di scomparire tutti e che non rimanesse nessun sopravvissuto per raccontare quella tragedia. Era necessario che qualcuno sopravvivesse per poter dire che cosa era successo e perché non avvenisse più una catastrofe simile. Oggi, a ogni incidente, o anche per semplici fatti di cronaca, si proclama ‘mai più questo’, a ogni pié sospinto e senza alcuni discernimento. Il pericolo, più che il negazionismo, è comparare cose che non c’entrano niente fra loro. La banalizzazione, in altre parole [...] Ci sono ancora tante persone che non sanno. Ed è così difficile concepire che una cosa del genere sia potuta accadere in pieno XX secolo, in un paese tanto fiero della propria cultura”» (Agatne Logeart, “la Republica” 16/1/2005).