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 2005  gennaio 15 Sabato calendario

PESAOLA Bruno. Nato a Buenos Aires (Argentina) il 28 luglio 1925. Calciatore. Allenatore (l’ultimo a vincere lo scudetto con la Fiorentina, nel 1968/1969)

PESAOLA Bruno. Nato a Buenos Aires (Argentina) il 28 luglio 1925. Calciatore. Allenatore (l’ultimo a vincere lo scudetto con la Fiorentina, nel 1968/1969). «[...] Quattordici stagioni da calciatore in Italia (con 394 presenze in A, terzo straniero dopo Altafini e Hamrin) e una ventina da allenatore, fiori all’occhiello lo scudetto del ’69 alla guida della Fiorentina, un paio di Coppe Italia e la salvezza del Napoli nel 1983. Quando Pesaola sbarca a Ciampino è il 5 agosto 1947. Proviene da Buenos Aires, dov’è nato da padre marchigiano e madre galiziana. Bruno è alto soltanto 165 centimetri e in Argentina lo chiamano ”el Petisso”, il piccoletto. ”Un emissario della Roma mi propose il trasferimento in Italia. Usai l’ingaggio per regalare una casa a mia madre e strappai uno stipendio considerevole, 120 mila lire al mese. Faccio un po’ di soldi, pensai, e tra un paio d’anni torno a Buenos Aires. [...]”. Pesaola gioca all’ala sinistra e in due stagioni disputa 73 partite e segna 19 gol. ”Diventai un beniamino dei tifosi giallorossi [...] Abitavo a Trastevere, cenavo nei ristoranti alla moda, frequentavo via Veneto e gli spettacoli di rivista per rimorchiare qualche ballerina”. Scaricato dalla Roma, dubbiosa sul suo recupero dopo un grave infortunio, Pesaola nel ’50 approda a Novara, dove confeziona i cross per Piola e conosce Ornella, un’incantevole ”miss Sanremo” che diventa sua moglie e gli regala un figlio. Nel ’52 Bruno passa al Napoli. ”Venni pagato 35 milioni. Arrivai assieme a Jeppson, che era costato il triplo”. Otto stagioni partenopee, un’apparizione in nazionale e la trasformazione da attaccante in centrocampista di fatica. ”Correvo anche per Amadei, che quando diventò allenatore pretese il mio allontanamento. Andai al Genoa, dove mi ruppi un piede e smisi di giocare. Era il ’61, avevo 36 anni e mi ero sempre drogato a modo mio: due pasticche di simpamina prima di ogni partita”. ”Petisso” torna a Napoli, dove ha preso la residenza. Lo raggiunge un’offerta per allenare la Scafatese, che dopo pochi mesi lo lascia libero di sedersi sulla panchina del Napoli, chiamato da Achille Lauro per salvare la squadra dalla C. ”Conquistai promozione e Coppa Italia” ricorda Pesaola, che nel ’66 s’arrampica al terzo posto e nel ’68 addirittura al secondo anche grazie alla strana coppia Altafini-Sivori. ”Farli convivere fu il mio capolavoro. Li coccolavo. A ciascuno dicevo che era più bravo dell’altro e viceversa”. Da Napoli a Firenze, dove nel ’69 Pesaola agguanta subito lo scudetto. Lo cerca la Juventus, ma lui rifiuta. ”Boniperti mi offrì 60 milioni l’anno, la metà di quello che percepivo dalla Fiorentina”. Di tutto quello che ha guadagnato, a Pesaola è rimasto praticamente nulla. Una lunga serie di investimenti sbagliati, un po’ per leggerezza, in parte per indolenza, molto per ingenuità. Due bar, una fabbrica di scarpe, un’azienda di fiori, una vetreria e una denuncia per evasione fiscale che gli costa dieci giorni di carcere e tre milioni di multa. ”Pochi sanno di calcio quanto me. Avessi avuto lo stesso fiuto negli affari, sarei miliardario”. il ’72 quando ”Petisso” si sistema a Bologna: sei stagioni, intervallate da un fugace ritorno a Napoli. L’ultima panchina è datata 1983, allorché lo stesso Napoli lo chiama per la quarta volta dopo che lui s’è concesso l’esperienza greca al Panathinaikos. [...] rivela di stimare soprattutto Mazzone, Trapattoni e Capello, mentre tra gli allenatori emergenti si rivede un po’ in Cosmi. Di Sacchi dice invece che ”è sempre stato un bluff”, definisce Moggi ”un maneggione” e Ferlaino ”una sfinge”. Tra i suoi rimpianti, al primo posto c’è quello di non aver mai allenato Maradona. ”Con lui in squadra lo scudetto a Napoli lo avrei portato anch’io”» (Mario Gherarducci, ”Corriere della Sera” 28/7/2005). «Ha avuto per maestro Renato Cesarini, s’è allenato con Di Stefano, ha fatto da spalla a Piola, ha allenato a più riprese il Napoli (una volta lo portò al secondo posto, miglior risultato dell’era premaradoniana), ha vinto uno scudetto a Firenze, uno l’ha perso per un punto ad Atene, all’ultima giornata, nel 1980. ”Ero al Panathinaikos, siamo andati sul campo dell’Olympiakos con un punto di vantaggio, hanno vinto loro 2-1 mi pare, ma il ricordo più forte è che la mia panchina sembrava una bancarella di frutta, ero circondato da un mucchio di arance”. Normalmente, era un mucchio di cicche, due pacchetti a partita ho letto. ”Un´esagerazione. Facciamo uno. Però è vero che la mia dose è di quattro pacchetti al giorno”. Sul whisky si glissa. Ha orari singolari, Pesaola. Deve dormire dieci ore al giorno. Mediamente va a letto tra le quattro e le cinque di mattina, i giornali li legge all’ora del tè. informatissimo su quel che succede in giro [...] partenza da Buenos Aires, nel ’47, destinazione Roma. Il padre Gaetano, maceratese di Montelupone, faceva il calzolaio. La madre, Inocencia Lema, era nata a La Coruna. ”Papà era abbonato al Giornale d’Italia, ma in casa si parlava castigliano. E io in Italia non bruciavo dalla voglia di venirci, per noi era un paese povero, ad Avellaneda raccoglievamo fondi e viveri da mandare in Italia. Lo sanno in pochi, ma ancora prima dovevo andare al Grande Torino, ma ero militare e non potevo. Sarei arrivato prima in Italia e sarei morto prima. Nel Torino c’era Maroso, il più gran terzino che abbia visto in Europa. Dalla Roma mi son fatto dare tutto l’ingaggio in anticipo (non fidarsi è meglio) e l’ho lasciato a mia madre, che finisse di pagare la casa. Mio padre era morto da otto anni. Lui non voleva che giocassi a calcio, lei di nascosto mi buttava giù gli scarpini dalla finestra. A 14 anni facevo due ore di treno per andare a Barranca Belgrano, dove allenava Cesarini [...] La lunghezza del viaggio, con scali a Montevideo, Rio, Natal, Dakar, Lisbona dove abbiamo dormito, Madrid, Ginevra, Roma. A Ciampino e lungo la strada per il centro si vedevano macerie e tutti i segni della guerra, ma la città era piena di voglia di vivere, Cinecittà muoveva i primi passi, una pacchia per un giovane calciatore. Andavo alla rivista, Rascel, Dapporto, sono diventato molto amico di Walter Chiari. A Roma mi ha fatto da guida un argentino della Lazio, Flamini detto el Flaco, anche lui di Avellaneda. Si cenava in una trattoria di via Frattina. Sono arrivato il 5 agosto, in Argentina era inverno. Ritiro ad Acquapendente. L’allenatore Senkey era ungherese, parlava l’italiano come me, cioè quasi zero. Mi sono ambientato subito, non ho saltato una partita. Il brutto è cominciato quando Gimona del Palermo mi ha rotto tibia e perone. Mi sono ripreso, ma la Roma non ne era del tutto certa e mi ha prestato al Novara. Gliel’avevo suggerito io, dopo un telegramma di Piola. Mi hanno provato in due amichevoli col fango alle ginocchia, a Mortara e Biella. Piola in quella stagione aveva 38 anni e ha segnato 22 gol, molti su cross miei, uno anche alla Roma, condannandola alla B. E in pratica impedendomi di tornare alla Roma, per regolamento. Così sono rimasto a Novara facendo la vita dell’atleta serio e aspettando la chiamata giusta: è arrivato il Napoli. Io mi definisco un napoletano nato all’estero, [...] Io sparerei a chi ha inventato il pressing, è come mettersi d´accordo per non giocare. Infatti la gente si diverte sul 2-0 per qualcuno, quando saltano i benedetti schemi [...] Io non sono di quelli che dicono sempre: ai miei tempi. Oggi è più difficile giocare. Ma c’è un altro aspetto negativo: in campo non ride più nessuno, sembra un dramma greco. Gli spettatori arrivano già incazzati, forse perché i biglietti costano troppo, non si divertono e s’incazzano ancora di più. [...] Io ai soldi ho sempre badato, chiedevo tanto e mi accontentavo di meno. Sono i dirigenti ad aver rovinato il calcio. Una volta erano più in gamba. Ne voglio ricordare uno, Gioacchino Lauro. Aveva in mano il precontratto di Riva, mandò tutto a monte Moratti padre. Si era accordato con Eusebio, ma l’Italia tenne chiuse le frontiere. Dopo il nostro secondo posto, il comandante Achille lo spedì in Australia sostenendo che il figlio aveva speso troppo. Capirai, 100 milioni per Zoff, 50 per Claudio Sala. Era solo la gelosia di un vecchio [...] Come giocatore ero un’aletta veloce, tiravo coi due piedi, crossavo bene. Un buon professionista, non un super. Fino a 36 anni ho trovato ingaggi, ho smesso con la maglia del Genoa perché uno del Venezia mi ha messo i tacchetti davanti mentre tiravo, questa era una specialità di Sivori, e mi ha rotto quattro dita del piede. Penso di essere stato più bravo come tecnico, a prevedere le partite, a scoprire giocatori, a cambiare ruoli. Ronzon era quasi una punta e l’ho messo libero, e per conto mio Ronzon è stato più forte di Baresi” [...]» (Gianni Mura, ”la Repubblica” 15/1/2005).