L’Indipendente, 17/10/2004, 17 ottobre 2004
Romani gay, ma con giudizio. Tanto i greci teorizzarono sull’amore virile quanto i romani lo praticarono con ardore e assiduità, giudicandolo con il consueto pragmatismo
Romani gay, ma con giudizio. Tanto i greci teorizzarono sull’amore virile quanto i romani lo praticarono con ardore e assiduità, giudicandolo con il consueto pragmatismo. E escludendo ogni impianto pedagogico. Il costume dei greci non trova di fatto nella Roma Antica particolari repressioni o pregiudizi, se non in qualche caso. In effetti nel corso dei secoli la materia fu oggetto di diverse leggi. In linea di massima sui sette colli il rapporto omosessuale rientra nella categoria dello stuprum, ovvero era illecito. Come lo era fornicare con una vergine o con una vedova. La ragion di Stato salvaguardava la famiglia classica, però chi voleva togliersi qualche sfizio con uno schiavo tenerello ne aveva piena facoltà. E nessuna sanzione era prevista. Pure Trimalcione per quattordici anni, prima di diventare liberto, aveva sollazzato il suo padrone. Petronio gli fa dire: «Non è mai turpe dare al proprio signore ciò che chiede». Altra pratica comune del buon pater familias era procurare al giovane e timido primogenito adolescente un servetto per le sue prime esperienze. Sul fronte delle mogli vale quello che sappiamo da Marziale. La consorte riservava la sua gelosia solo verso le scappatelle etero del marito, chiudendo occhi e cuore verso le avventure omoaffettive: «Mio marito può andare con tutti i ragazzetti che egli vuole, ma se lo vedo con un’altra gli cavo i denti». Di fatto, innumerevoli leggi ci danno un quadro sufficientemente chiaro di quello che era l’atteggiamento nei confronti della gaiezza. Si poteva praticare. Il limite, severo, era fissato dal bene pubblico e dall’idea del tempo di dignità e onore. Per esempio, i maschi che esercitavano la prostituzione perdevano i diritti politici, non perché froci, ma perché vendevano il prorio corpo. Allo stesso modo, in genere, non si reprimeva l’omosessualità in sè, ma il rapporto sessuale tra maschi compiuto con violenza o sopraffazione. Insomma, erano i modi a costituire reato, non l’atto in sè per sè. Ovviamente chi esibiva modi troppo effeminati veniva preso ferocemente in giro. Che fosse un garzone o il potente Giulio Cesare in realtà poco cambiava. C’era sempre la retorica affilata di qualche ben pensante pronta a farlo a fettine. Ma oltre, in genere, non si andava. Il ricco che celebrava le sue nozze farsesche con lo schiavo preferito suscitava ilarità, magari sdegno, ma non offendeva alcun dio. Sù, nell’Olimpo, in questo campo non c’era nessuno che dava il buon esempio. Per vedere perseguitati con passione e costanza i culattoni bisogna aspettare i monoteisti.