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 2004  ottobre 24 Domenica calendario

Il Presidente nemico del Congreso

I primi presidenti. Si può dire che questa progressiva ”presa di possesso” della loro residenza ufficiale da parte dei presidenti non è altro che la rappresentazione simbolica della presa di possesso della leadership federale sugli Stati Uniti. Certo quando i padri fondatori, alla Convenzione di Philadelphia del 1787, stabilirono che la federazione delle 13 colonie ribellatesi agli inglesi si sarebbe data «un supremo magistrato» non immaginavano quel che ne sarebbe scaturito: ossessionati com’erano dall’incubo della tirannide, avrebbero avuto orrore della concentrazione di potere che la storia e la politica avrebbero messo nelle mani di quello che sobriamente decisero di chiamare «presidente degli Stati Uniti». In realtà si potrebbe guardare la storia dell’attuale iperpotenza come la continua lotta tra la Casa Bianca da una parte e il Congresso e i poteri locali dall’altra: una lotta che, pure se sotto traccia, continua ancora oggi, se è vero che tradizionalmente la Camera e il Senato esprimono una maggioranza ostile al ”comandante in capo” (durante i mandati di Bill Clinton, presidente e parlamentari ingaggiarono una battaglia feroce che bloccò buona parte dell’attività legislativa). In ogni caso l’introduzione della figura di un presidente negli Stati Uniti fu una novità inaudita nella politica internazionale. Alexis de Tocqueville, durante il viaggio negli Stati Uniti da cui scaturì La democrazia in America (1840), notava però che la carica era poco appetita a causa della debolezza del ruolo. Il motivo, secondo la geniale intuizione dello studioso francese, risiedeva nel fatto che gli Stati Uniti non avevano una politica estera: a suo parere il peso internazionale di Washington e quello interno della presidenza sarebbero aumentati di pari passo; in un’America protesa a dominare la scena internazionale, un presidente avrebbe addirittura potuto esercitare un potere semi-tirannico sul paese, puntando sull’acquiescenza dei cittadini di una democrazia. La storia gli ha dato in buona sostanza ragione. I primi presidenti degli Stati Uniti furono scelti all’interno dell’élite indipendentista: i ”federalisti” di George Washington e John Adams, primo e secondo presidente, interpretarono la Costituzione di Philadelphia nel senso di rendere più forte il potere centrale, mentre i ”democratico-repubblicani” si batterono per i diritti degli Stati e le libertà personali (caratteristica che ne fece i beniamini degli interessi del Sud). Nel 1800 i ”democratico-repubblicani” riuscirono a fare eleggere alla Casa Bianca il loro leader, Thomas Jefferson, uomo di personalità assolutamente straordinaria, dotato nei più svariati campi della cultura, delle scienze, della politica e della diplomazia (senza contare una certa passioncella per le schiave negre che gli procurò qualche figlio illegittimo e più di un grattacapo) e che si rivelò, soprattutto, un grandissimo presidente: lo storico Massimo Teodori ha definito i suoi 8 anni alla Casa Bianca «quasi una seconda fondazione». Malgrado il motto «il miglior governo è quello che governa meno», Jefferson usò largamente il suo potere: mentre l’economia viveva un periodo florido, favorì la corsa all’Ovest acquistando la Louisiana da Napoleone (costo: 15 milioni di dollari), democratizzò il sistema politico e le procedure elettorali, estinse il debito pubblico, ridusse le tasse e riuscì pure a fondare diverse università statali. Fu sempre Jefferson a ben guardare a propiziare l’avvento dell’uomo che portò alla Casa Bianca le istanze della nuova borghesia industriale e dei giovani stati dell’ovest: Andrew Jackson, presidente dal 1825 al 1833. Il generale che aveva battuto gli inglesi a New Orleans nel 1815 e prima ancora guidato una comunità di coloni nel Tennessee, fu il primo presidente ”democratico”, anzi fu lui stesso a organizzare il partito come movimento nazionale di massa riallacciandosi alla tradizione antifederalista di Jefferson. Ma Jackson fu soprattutto un presidente forte: quando nel ’32 la Carolina del Sud si oppose alle tariffe protezionistiche volute dal Congresso non esitò a inviare la Marina nel porto di Charleston (anche se, dopo un lungo braccio di ferro, fu costretto a firmare un compromesso).