L’Indipendente, 07/11/2004, 7 novembre 2004
Quando gli straccioni eravamo noi, la scommessa per la libertà si chiamava America e passava per Ellis Island, un isolotto di quattordici ettari a un centinaio di metri da Manhattan
Quando gli straccioni eravamo noi, la scommessa per la libertà si chiamava America e passava per Ellis Island, un isolotto di quattordici ettari a un centinaio di metri da Manhattan. Dal 1892 al 1954, sotto le volte di un edificio dai mattoni rossi e bianchi sormontato da quattro torri con cupole a cipolla, l’ufficio federale Immigrazione processò 12 milioni di emigranti, valutandone identità, profilo sanitario e condizioni economiche. Al 1930, gli italiani passati di qui sono stati 5 milioni. L’altra metà si è divisa fra Halifax, in Canada, ”l’altra porta d’America”, l’Hotel degli Immigrati a Buenos Aires e l’Hospedaria a San Paolo. Georges Perec in Ellis Island – Storie di erranza e di speranza la definisce così: «Una fabbrica per sfornare americani, una fabbrica per trasformare emigranti in immigranti, una fabbrica all’americana. Rapida ed efficace come una salumeria di Chicago». Ellis Island è passata alla storia anche come ”Isola delle lacrime”: famiglie spaccate, rimpatriati, suicidi, malati trattati come detenuti. Le statistiche ufficiali dicono che solo il 2 per cento è stato rifiutato. Tradotto, vuole dire che se ne sono tornati a casa in 250mila. Tremila hanno preferito il suicidio. I transatlantici per New York, si chiamavano Lusitania, Mauretania, Duca degli Abruzzi, Principessa Mafalda, Re Vittorio, Regina Elena, Nord America. Ma per milioni di emigranti, che avevano affrontato trenta giorni di viaggio col rischio di rimetterci la pelle erano ”navi lazzaretto”, giganti di ferro che stipavano nelle loro pance fino a duemila poveracci, ammassati su pagliericci sovrapposti.