varie, 12 gennaio 2005
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Biografia di Dado Ruspoli
• (Alessandro Maria Galeazzo) Roma 9 dicembre 1924, Roma 11 gennaio 2005. Principe • «[...] princeps romanus [...] vissuto cogliendo l’attimo, all´insegna di un privilegiatissimo carpe diem. Cinque figli da tre donne diverse, e una gran voglia di non fermarsi. È stato, in anni ormai lontani, il più mondano, irrequieto e dissipatore degli aristocratici italiani, il più narcisista, il più stravagante e il più scandaloso. Millecento anni di storia a gravare sul blasone, nove papi e anche una santa in famiglia (santa Giacinta), cui don Alessandro Maria Galeazzo Ruspoli detto Dado principe di Cerveteri, marchese di Riano, sedicesimo conte di Vignanello, capo della più titolata dinastia paladina del papa re, ha reagito con inesausto fervore, senza mai risparmiarsi, viveur indomito, re di eccessi, stravizi, colpi di testa, massimo precursore della Dolce Vita senza essere mai una macchietta. A Capri, erano gli anni ’50, fece epoca per il suo vezzo di andare a passeggio in piazzetta con un pappagallo appollaiato su una spalla. Deambulare in simbiosi con un pappagallo diventò presto una moda: questo e altri innocui capricci del principe ispirarono il più grande dei nostri comici nel film Totò imperatore di Capri. Per tutta la vita, ma invano, Dado minimizzerà, spiegando che non di un pappagallo si trattava, bensì di un povero e umile corvo che gli era piombato sul campo da tennis con un’ala rotta. Erano gli anni della festa continua, delle futili sregolatezze all’ombra dei Faraglioni accanto a Curzio Malaparte e a Truman Capote, delle notti bianche a Saint Tropez dove Ruspoli affittò una villa assieme alla coppia Roger Vadim e Jane Fonda, dei balli mascherati con Brigitte Bardot e Joan Collins, delle baldorie estenuanti. Gli anni in cui andò a lezione di ipnotismo da Orson Welles, gli anni dei bagordi e della droga, da cui una prima volta, appena diciassettenne, era riuscito a disintossicarsi seguendo i consigli che gli dette Jean Cocteau. Quando la misura fu colma e la noia assoluta, gli restò la fuga in Estremo Oriente. Coltivatore onnivoro di filosofie zen, scienze esoteriche, trascendentalismo, occultismo fece perdere le sue tracce “alla ricerca del sé”. Tornò con tre tatuaggi sulle braccia che gli incise sottopelle un bonzo nel Laos. Per la prima volta nella sua vita si mise a lavorare, a fare l’attore. Con grandi registi. Con Marco Ferreri, accanto a Ingrid Thulin, interpretò La casa del sorriso, una storia sull’angoscia e sull’inesorabilità della vecchiaia. Ha lavorato anche con Coppola, pazienza se era solo una particina, nel Padrino III. E poi con Antonello Aglioti, sia al teatro che al cinema, nel ruolo del maggiordomo nel Giardino dei ciliegi. Niente di nuovo sotto il sole: anche recitare, sia pure per gioco, lo aveva già fatto, accanto a Moravia in un film in costume di Umberto Silva, lui faceva l’inquisitore, Moravia il diavolo in persona. Ha combattuto il declino potendosi permettere di fare due figli in tarda età, risposandosi a 70 anni con una donna che ha 40 anni meno di lui, la modella francese Patricia Genest. “Mi sento come un albero carico di frutta, ed è una bellissima sensazione. Anche perché vedo in giro tanti altri alberi rinsecchiti” [...] Sulla vecchiaia rideva: “Sono un portatore sano di terza età”. Era colto a suo modo, curioso e pieno di ironia, mai arrogante, e generoso. All´amico Giuliano Ferrara ha regalato la sua amatissima cagnolina bassotta, Justine. [...]» (Laura Laurenzi, “la Repubblica” 12/1/2005) • «Di lui ci si ricorda sempre come di quel signore stravagante che girava per Capri scalzo e con un pappagallo sulla spalla. [...] primogenito di Francesco e di Claudia Matarazzo, bella ereditiera di una fortuna brasiliana. Suo fratello, minore di due anni, è Sforza (nome) Marescotti (secondo nome), quello che ha nel suo studio la gigantografia di Zapata, che ama farsi chiamare principe contadino e che ogni anno dice messa per i caduti papalini a Porta Pia. In questo quadretto familiare è cresciuto Dado (erede di uno dei titoli più prestigiosi del gotha papalino) che nella vita non si è risparmiato nulla, dagli amori, all’occultismo, alla droga. Di sé una volta ha detto: “la mia inflessibile tendenza alla monogamia mi fa sentire eternamente sposato”. Principio che ha seguito rigorosamente infilando ben tre vere nuziali. La prima, quando aveva ventitrè anni, a Francesca Blanc, la seconda nel 1964 a Nancy de Girard de Charbonnieres e la terza quando ormai la terza età lo incalzava, nel 1993, con Theresa Patricia Genest. In tutto cinque figli, di cui due dall’unione (senza fede) con Debra Berger (Tao e Bartolomeo). Francesco, erede del titolo, è il frutto delle seconde nozze. Mentre Mathilda Mélusine, nata nel 1994, e Théodore Alexandre, del 1997, li ha avuti dall’ultima giovanissima moglie. E sono stati loro la sua ultima cura contro la vecchiaia. [...] nella sua storia, degna di un film, c’è molto più della Dolce Vita, che in fondo è stata solo, per lui, una parentesi finita “quando Fellini decise di chiamarla così”. Fu Dado ad avvertire il regista, la sera stessa dell’anteprima del film: “adesso che l’hai nominata la dolce vita è morta”. Dado Ruspoli odiava le classificazioni, odiava essere ricordato come “quello della dolce vita con il pappagallo in spalla”. E quando poteva precisava che il pennuto “non era affatto un pappagallo, ma un corvo”. E che tutta questa leggenda in effetti nacque da un semplice atto di carità. “Stavo giocando a tennis quando sul campo cadde qualcosa, era un corvo ferito da un cacciatore con un colpo di fucile. Decisi di portarlo in albergo per curarlo e me lo misi in spalla. Dove altro si può mettere un corvo? Ma su via Tragara un paparazzo mi fotografò e iniziò questa moda”. Tanto che un signore arricchito della provincia napoletana, non trovando di meglio, andava in giro con un pollo in spalla. D’altronde, anche se il pappagallo non è mai esistito, è esistita però la stravaganza di questo principe “fuori serie” che amava camminare scalzo, indossare pantaloni rossi e magliette gialle e sperimentare tutto quanto lo sperimentabile, compreso l’esoterismo e la droga. Fu Orson Welles, a Capri per girare l’Otello, a farlo appassionare ai poteri dell’arte magica. Welles passava le serate a raccontare di quando in un circo ipnotizzava coccodrilli. Una sera al bar Vuotto, nella piazzetta di Capri (come racconta Ludovica Ripa di Meana tracciando un ritratto di Dado Ruspoli) il regista chiese al principe: “Cosa ti piacerebbe che accadesse adesso?”. La risposta fu: “vorrei che quella signora si versasse sul vestito il suo Bloody-Mary”. Detto, fatto, il bicchiere cade e il décolleté della dama diventa un immenso lago di pomodoro rosso. Della sua esperienza con la droga parlava solo con chi gli assicurava di non cadere nel “moralismo e nell’intolleranza”. “Cominciai a diciassette anni”, raccontò. “Nel modo peggiore: in farmacia, con morfina e cocaina”. Da lì fu un susseguirsi di ricoveri in cliniche per disintossicarsi. Fino all’incontro con Jean Cocteau. ”Mi prese per mano e mi tirò via da quell’inferno”. Perché tutto nella vita di questo principe che ha gettato alla vita, con incoscienza e generosità la fortuna di famiglia (il palazzo avito è adesso di proprietà del finanziere Roberto Memmo) è mai stato banale. Neanche il nome del suo salvatore» (Maria Corbi, “La Stampa” 12/1/2005) • «[...] Giocò a tingersi i capelli a strisce (gialle, verdi, viola) quarant’anni prima dei punk. Ma ridurre Dado Ruspoli al corvo ferito e a Totò sarebbe l’ingenerosa amputazione di una personalità multiforme, curiosa degli ingegni quanto delle belle donne, solare ma venata di misticismo, controcorrente però rispettosa delle radici e delle istituzioni. Da antico principe romano dava del tu a chi contava. A 17 anni provò la cocaina, per esempio, ma smise su suggerimento di un amico che si chiamava Jean Cocteau. Col tempo, e con quella sua ostinata curiosità intellettuale, diventò intimo di Dalí, di Picasso, Curzio Malaparte, Jean Genet, Roman Polanski. A Parigi finanziò uno dei primi balletti di uno sconosciuto Roland Petit. Frequentava abitualmente Leonor Fini, scandalosa pittrice bisessuale, e il raffinato Balthus. E poi Giancarlo Menotti, Fellini, Mastroianni, Truman Capote, i Rolling Stones. Se affittava una casa in Costa Azzurra divideva le spese con Roger Vadim e Jane Fonda e alle loro spaghettate non mancavano mai Brigitte Bardot e Joan Collins. [...] Poi quel pianeta incantato si frantumò: “Piano piano vedemmo il mare popolato di barche piene di italiani ricchissimi, spesso autentici avventurieri, quindi urla, rumore, ostentazione. Era l’inizio della fine. Era cominciata l’era neovolgare”. Se Dado Ruspoli ha avuto una sua grandezza e certo l’ha avuta, è stato il suo essere l’opposto di ciò che nel jet set d’oggi certifica un successo: denaro, fama, spreco. Quando la fortuna avita scemò, col fratello Lillio vendette il piano nobile di palazzo Ruspoli dopo mezzo millennio di proprietà familiare, roba progettata dall’Ammannati e affrescata da Jacopo Zucchi. Si ritirò nell’altana, con ironico e signorile distacco. [...] si perse per mesi tra il Nepal, la Thailandia del Nord, la Birmania. Sprofondò nell’oppio, sempre per quella sua vorace curiosità. Ne riemerse. Recitò anche, e benissimo, grazie a un talento nutrito di indicibile classe. [...]» (Paolo Conti, “Corriere della Sera” 12/1/2005).