Varie, 5 gennaio 2005
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Jaar Alfredo
• Santiago (Cile) 5 febbraio 1956. Artista. «[...] da anni residente a New York, persegue una ricerca rigorosa incentrata su problematiche sociali di cui mette a nudo gli aspetti contradditori. Dai lavori sui massacri in Ruanda, ai lavori sui minatori in Brasile, al coinvolgimento degli homeless di Montréal, ogni volta attiva un corpo a corpo coraggioso con la più stringente attualità. Senza inciampare nella trappola della demagogia o nella prevalenza dei contenuti sul linguaggio, l’artista non si limita a svolgere un esercizio di denuncia, quanto - attraverso la messa in scena di un discorso per indizi (fotografie, scritte, installazioni, video) - ricerca un dialogo con gli spettatori mettendoci di fronte a drammatici interrogativi. A noi la possibilità di esprimere un giudizio, assumere o meno una posizione. Nei suoi lavori è costante la presa di posizione fortemente critica nei confronti della presenza debordante delle immagini, dell’anestesia provocata da un eccesso di comunicazione. In questi anni Jaar ci mette di fronte a diverse forme di diniego che Stanley Cohen delinea come carattere forte della contemporaneità che ci porta all’incapacità e al rifiuto di confrontarci frontalmente con la sofferenza nostra e altrui, a fare finta di non vedere, a rendere invisibili situazioni atroci. Non a caso la nota installazione Laments of the Images [...] affrontava poeticamente la questione relativa a forme diverse di “impossibilità di vedere” culminando con un schermo troppo luminoso, troppo visibile, dunque impossibile da guardare dopo il primo istante. Un paradosso che sperimentiamo quotidianamente, l’eccesso di visibilità che rende ciechi, un accecamento, una forma di diniego. È un terreno delicato, una questione centrale che, da quando le immagini del mondo arrivano nelle nostre case, non possiamo più dire che non sapevamo. [...] Ma Jaar non ha alcun intento filologico, il suo sguardo passa per la figura del filosofo per attivare una domanda dolorosa sul presente, interrogare una società che in questi anni ha scelto di farsi governare da un uomo che ha costruito il suo percorso a colpi di televisione commerciale e considera i cittadini prima di tutto un popolo di consumatori. È un po’ difficile volgere lo sguardo altrove. Non a caso la cella che per via di metafora evoca la prigionia di Antonio Gramsci, ha le pareti di specchi. Entrando, nell’oscurità, altro non vediamo che la nostra stessa immagine riflessa all’infinito. [...]» (Emanuele De Cecco, “il manifesto” 4/1/2005).