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 2004  dicembre 23 Giovedì calendario

Sharansky Natan

• Stalino (Ucraina) 20 gennaio 1948. Politico. Israeliano • «Oggi, secondo Time Magazine, è all’undicesimo posto fra i cento uomini più influenti del mondo. Ma negli Anni ’80 Natan Sharansky era, con Nelson Mandela, il più famoso dissidente del mondo. Gettato nell’87 nel gulag sovietico, vi passò nove anni per le critiche al regime e per aver espresso il desiderio di emigrare in Israele. Era, come il suo maestro Andrei Sakharov, un famoso refusenik, uno a cui, cioè, veniva rifiutato il visto. Quando il gigante comunista crollò Sharansky fu il primo prigioniero di coscienza liberato da Gorbaciov. Potè infine raggiungere la sua terra promessa dove l’aspettava la moglie Avital, che con incredibile forza si era battuta per lui. Come in una favola bella Sharansky, fisico e scacchista che aveva sfidato Kasparov, divenne in Israele ministro per Gerusalemme e la diaspora. Ma in lui seguitavano a lavorare gli interrogativi che ne hanno fatto il teorico della rivoluzione democratica, il credo di George Bush. L’idea che solo la democratizzazione possa portare alla sicurezza mondiale e che sia possibile solo con un intervento internazionale senza compromessi e senza appeasement, è la convinzione che Sharansky ha tratto dalla sua storia. Quella per cui [...] invitatolo alla Casa Bianca, Bush ha detto: “Se qualcuno vuole sapere qual è il cuore della mia politica estera, legga il libro di Sharansky In difesa della democrazia [...] “In prigione si divide il tempo e il pane con ogni tipo di persone, proprio tutti, con quello che ti somiglia e con quello distante da te mille miglia. E senti senza equivoci l’elemento che unifica tutti: il desiderio di libertà. Ogni uomo, quando ne ha la possibilità, vuole esprimere le proprie idee. Se si crea uno spazio per la società libera, tutti gli uomini, quale che sia la loro sorte, la vogliono [...] si apre un varco solo quando si crea un movimento nel mondo libero che difende i dissidenti, quando gli stati creano un indefettibile legame fra rapporti internazionali e diritti umani. Fu solo quando gli Usa con l’emendamento Jackson Vanick stabilirono che avrebbero avuto con l’Urss rapporti direttamente proporzionati al rispetto dei diritti umani, che i movimenti di sostegno ai dissidenti si rafforzarono, fino al crollo della tirannia. Finalmente risultò chiaro a tutti come la sicurezza del mondo sarebbe migliorata una volta che l’Urss si fosse dissolta. E così è stato. Pensi al pericolo di guerra mondiale presente in ogni momento ai tempi dell’Urss [...] nell’Unione Sovietica milioni persone erano chiuse nei gulag, milioni lavoravano nel Kgb alla destabilizzazione mondiale a alla repressione interna, milioni avevano paura di essere arrestati la mattina dopo. Questo tipo di regime, con tutti i limiti della situazione russa, non esiste più. [...] i regimi dittatoriali sono aggressivi, pericolosi, possono compiere terribili crimini... Ma sono molto fragili. Basta che il mondo dica per esempio: noi non tollereremo il vostro regime, non ci avremo niente a che fare fino a che sostenete Hezbollah e opprimete la vostra opposizione interna” [...]» (“La Stampa” 26/4/2005). «[...] L’esempio a cui Sharansky si richiama è quello del presidente americano Ronald Reagan, a cui deve la propria liberazione dal gulag sovietico nel 1986 dopo nove anni di detenzione, che pose le basi per la dissoluzione dell’Urss [...]» (“La Stampa” 22/12/2004). «Per anni è stato considerato una specie di alieno, il prodotto atipico di una nobile causa, quella abbracciata a costo di grandi sacrifici dagli ex dissidenti dell’Unione sovietica. [...] Le sue teorie sull’espansione della libertà e la guerra alla tirannia, formulate nel libro The case for Democracy, hanno trovato in George W. Bush un convinto assertore. Al punto che l’ex refusnik oggi ministro del governo Sharon [...] s’è visto recapitare un invito alla Casa Bianca per uno scambio di vedute di un’ora con il presidente americano. [...] “Ciò che lusinga è il fatto che il Presidente Bush veda nel libro un’espressione, una summa delle sue idee. Egli crede veramente nei principi di cui io scrivo e, soprattutto, cerca di metterli in pratica. E questo è molto più importante e difficile [...] Che cosa vuol dire neocon? Le etichette in genere celano il tentativo di ignorare i contenuti, l’idea stessa. È un condizionamento politico, per cui se sei a sinistra sei automaticamente contro, mentre se sei a destra sei automaticamente a favore. Io invece espongo un’idea che ritengo molto profonda ed importante, secondo cui è possibile garantire la sicurezza nel mondo solo tramite il potenziamento della libertà. Ed è un’idea che ho elaborato già da dissidente nell’Unione Sovietica, insieme al mio maestro Andrej Sakharov, ed il fatto che un presidente americano si trasformi in ‘dissidente’, adotti questa idea, ci creda e la promuova non è soltanto lusinghiero, è la realizzazione di un sogno [...] Mi ha detto che il mio libro riflette una cosa che ha sempre percepito, e cioè che non è possibile che la libertà sia una dono che Dio ha dato solo agli americani: ‘È un dono per tutti, tutti i popoli hanno il diritto di vivere in libertà e se tutti vivono liberi anche la nostra sicurezza è garantita. Nel suo libro - mi ha detto anche - ho trovato le basi teoriche, storiche di questa percezione ed ora è giunto il momento di passare dalla teoria alla pratica [...] Non è una battaglia per la libertà totale, bensì per una sicurezza reale e il Presidente Bush capisce che la sicurezza per noi [gli israeliani] significa libertà da loro [i palestinesi]. Quanta più libertà hanno, tanta più sicurezza abbiamo noi. Penso dunque che sia un’ottima cosa il fatto che chi crede in tutto ciò sia il leader del mondo libero [...] Da molti anni dico e ripeto che l’ampiezza delle nostre rinunce deve essere parallela all’ampiezza delle loro riforme. In una frase, voglio dare ai palestinesi tutti i diritti di cui godo io, tranne uno: quello di distruggermi. E non vi è altro mezzo per arrivare a questo se non scegliere la strada della democrazia. Dopo anni che ripeto queste cose, c’è finalmente il leader del mondo libero che la pensa come me, che ritiene che gli arabi possano vivere in un regime democratico esattamente come gli occidentali. Basta con questi stereotipi razzisti, per cui la democrazia non fa per gli arabi [...] Il mio libro non tratta dei rapporti fra governi, di come un determinato governo usi la forza contro un altro. Ciò che tento di dimostrare è che le dittature sono sistemi di governo molto deboli all’interno, perché tutta la loro forza deve essere impiegata nel controllo del singolo cittadino, della sua mente. Poiché sono così deboli, non è nemmeno necessario fargli la guerra, basta non sostenerli, non rafforzarli, non dare loro forza dall’esterno. Questo è sufficiente per incoraggiare i dissidenti. Questo significa che è possibile incoraggiare un cambiamento senza usare la forza [...] Se alla volte il mondo libero è costretto a fare uso della forza e a dichiarare una guerra è solo perché prima c’è stato un periodo in cui ha tentato di pacificare il dittatore, facendo concessioni. Così è successo con Hitler, così è successo con Stalin ed poi anche con Arafat e Saddam Hussein. Se negli anni ’80 l’America non avesse creduto che Saddam Hussein le era utile contro l’Iran, Saddam Hussein non sarebbe mai diventato tanto potente. Lo stesso dicasi dell’Arabia Saudita, di cui parlo a lungo nel mio libro. Senza un aiuto esterno tali regimi cadranno dall’interno, come è accaduto all’Unione Sovietica [...] Io suddivido la popolazione dei paesi totalitari in tre gruppi: ‘true believers’ (totalmente convinti), dissidenti e ‘double thinkers’ (che pensano una cosa e ne dicono un’altra). Con il passare degli anni, il numero dei double thinkers aumenta in continuazione, mentre si verifica un calo parallelo nel numero dei true believers. [...]» (Alberto Stabile, “la Repubblica” 2/2/2005).