Luca Castelli, La Stampa 23/12/2004, pag. 24., 23 dicembre 2004
[Copyright] Lo scorso ottobre gli eredi della scrittrice Margaret Mitchell hanno chiesto a un sito Internet australiano di cancellare dai propri archivi la versione integrale e gratuita di Via col vento, il romanzo alla base del famoso film del 1939 con Vivien Leigh e Clark Gable
[Copyright] Lo scorso ottobre gli eredi della scrittrice Margaret Mitchell hanno chiesto a un sito Internet australiano di cancellare dai propri archivi la versione integrale e gratuita di Via col vento, il romanzo alla base del famoso film del 1939 con Vivien Leigh e Clark Gable. Mentre in Australia l’opera è ormai di pubblico dominio, negli Stati Uniti è ancora protetta dal copyright. E visto che Internet non conosce confini geografici, qualsiasi cittadino americano può collegarsi al sito australiano per leggerla liberamente. Questa piccola notizia - quasi un aneddoto - rappresenta soltanto una delle tante crepe che si stanno aprendo nel sistema giuridico che regola e tutela la proprietà intellettuale. L’avvento di Internet e il progressivo passaggio a una società e a una cultura «digitali» hanno modificato drasticamente le modalità di distribuzione delle opere frutto dell’ingegno umano. Accanto ai canali tradizionali, si sono aggiunte le cosiddette «autostrade della informazione», le dorsali Internet sulle quali viaggiano alla velocità della luce miliardi di bit, di per sé impalpabili e inintelligibili, tradotti dal linguaggio dei computer in canzoni, film e testi. Dalla riproducibilità tecnica cara a Walter Benjamin si è passati alla riproducibilità digitale, con effetti notevoli, quando non addirittura rivoluzionari. Anarchica e deregolamentata per costituzione, la Rete ha favorito la duplicazione non autorizzata e su scala planetaria di opere protette (con effetti particolarmente dirompenti nel mondo della musica), da un lato andando a cozzare contro il sistema tradizionale del copyright, dall’altro offrendo uno sbocco concreto all’antico sogno di una libera condivisione della cultura e dell’informazione. Proprio a metà tra questi due poli - la tutela del diritto d’autore e la condivisione della creatività umana - si pongono le «Creative Commons», un pacchetto di licenze di copyright nate all’interno della Scuola di Legge di Stanford, negli Stati Uniti, di cui oggi viene presentata la versione italiana. Scritte con l’obiettivo di adeguare le vecchie regole a una società in continua evoluzione, le «Creative Commons» partono da un presupposto molto semplice, riassumibile con la sostituzione di un termine: da «all rights reserved» (per cui un’opera ha «tutti i diritti riservati») a «some rights reserved» («alcuni diritti riservati»). In questo modo, l’autore stesso o la società detentrice dei diritti di un’opera possono decidere volta per volta quale utilizzo concederne, magari lasciando aperta qualcuna di quelle finestre che il monolitico «all rights reserved» teneva rigorosamente sigillate e che oggi Internet ha spalancato senza pudore. Sulla novità si è tenuto recentemente un convegno, ospitato nella sede della Fondazione Giovanni Agnelli a Torino: «Il lancio delle licenze Creative Commons italiane», a cura del Cnr, in collaborazione con l’Università di Torino. Chi scrive una canzone, per esempio, potrà decidere di autorizzarne la copia e la riproduzione a uso non commerciale (licenza «Noncommercial»), a patto che venga citato il nome dell’autore («Attribution») e che gli eventuali remix vengano distribuiti con la stessa licenza («Sharealike»). più o meno quanto accaduto con il «Wired Cd», la compilation musicale - con brani di Gilberto Gil, David Byrne e Beastie Boys - distribuita a novembre in allegato al mensile americano Wired, primo esempio ad alta visibilità mediatica del sistema «Creative Commons». L’applicazione incrociata delle undici licenze disponibili non è tuttavia limitata alla musica, ma copre qualsiasi tipo di informazione, artistica e non: dai film ai fumetti, dagli articoli di giornale alle lezioni universitarie (hanno già aderito il Massachusetts Institute of Technology e il Berklee College of Music). In una sezione aperta a novembre e battezzata «Science Commons», sono allo studio anche le possibili applicazioni della filosofia al reame delle scienze, per facilitare la collaborazione e la condivisione di dati, ricerche e conoscenze tra scienziati e università. Il sistema è insomma molto articolato, «flessibile» come l’epoca in cui nasce, costruito in modo da definire un diritto internazionale, univoco, che impedisca casi paradossali come quello di Via col vento. Già operative in dieci Paesi (tra cui Germania, Giappone e Stati Uniti), in fase di elaborazione in altri undici (tra cui Francia, Gran Bretagna, Cina e Israele), le «Creative Commons» sono state tradotte e adattate all’ordinamento giuridico italiano da un team coordinato dal professor Marco Ricolfi del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Torino. E la scorsa settimana sono state presentate ufficialmente nel capoluogo torinese, alla presenza di Lawrence Lessig, il professore di Stanford da cui prende origine il progetto, tra i massimi esperti al mondo di diritti digitali.