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 2004  dicembre 22 Mercoledì calendario

Wesselmann Tom

• Cincinnati (Stati Uniti) 23 febbraio 1931, New York (Stati Uniti) 17 dicembre 2004. Artista. «[...] uno dei maestri della pop art di cui fu, agli esordi, uno degli esponenti di punta, quando isolava in grandi quadri personaggi e situazioni comuni dell’American way of life. Quest’artista che era nato a Cincinnati, nell’Ohio, ma che ha vissuto e lavorato a New York, era però idealmente molto più vicino a una sorta di ”nuovo realismo”. Di gusto pop, questo è certo. E di conseguenza ha fatto parte a pieno titolo di questo movimento che ha avuto esponenti come Andy Warhol o Roy Lichtenstein e di cui sono ancora in piena attività maestri come Rauschenberg, Jim Dine, Oldenburg o Rosenquist. Tom Wesselmann dunque non è l’ultimo di questa corrente e non era tra gli artisti che meravigliarono i visitatori della Biennale di Venezia del 1964, quando la pop art si presentò prepotentemente sulla ribalta dell’arte Europea. Ma è in quegli anni che espose nelle gallerie di New York [...] la prima la serie di nudi femminili, noti come Great American Nudes e poi quella degli ”interni”. Sono opere che segnate dalla giustapposizione di parti dipinte in stile cartellonistico con immagini derivate dal repertorio dei mass media, magari con l´inserimento di oggetti reali come un pacchetto di sigarette. Colori acrilici e collage, ricostruzioni di sale da bagno e particolari anatomici femminili ingigantiti, come la serie Smokers, gigantesche labbra da cui pendono sigarette accese e fumanti. E a queste deve la celebrità. Nell’ultimo ventennio, a partire dal 1985 l’artista ha usato il laser per incidere i suoi disegni su lastre di alluminio tagliate e lavorate con filigrane colorate. Anche in queste opere, comunque, Wesselmann conserva l’approccio diretto con l’immagine, senza mai apparire artificioso e sofisticato, riuscendo a conservare il proprio caratteristico segno» (Paolo Vagheggi, ”la Repubblica” 22/12/2004). «Le sue donne nude che fuoriescono dalla doccia, facendo capolino dalla tenda plastificata, o che parlano al telefono immerse nella vasca da bagno tra la schiuma, sono state il simbolo dell’’erotismo” seriale della Pop art americana. Ragazze da copertina, pin up intoccabili, sagome ritagliate perfettamente in interni domestici e delineate nei colori della bandiera americana: rosso, blu e bianco perché in sogno l’artista aveva ridisegnato il mondo così, con questo arbitrario e ridottissimo spettro cromatico. Ragazze, oltretutto, piatte, virtuali silhouettes, nonostante i seni siano sempre ben in vista. [...] deve la sua vocazione artistica alla noia provata quando era soldato, richiamato dall’esercito per la guerra di Corea. Per ingannare il tempo cominciò a disegnare caricature e strisce satiriche sulla vita militare che trovava deprimente. Tornato dalla guerra, si laureò in psicologia ma ormai il suo percorso era segnato e andava in tutt’altra direzione: l’ingresso nella prestigiosa Cooper Union School ”inventò” un nuovo Wesselmann, l’artista Pop. Cominciò a guardare con attenzione all’Espressionismo astratto di Willem De Kooning, divenne un suo fan ma scelse la strada opposta per non misurarsi con la grandezza del suo idolo. Nessuna gestualità, niente astrattismo ma una moderna figuratività che riportasse in primo piano, anzi in dettaglio, l’everyday degli americani. Come in pubblicità, nei cartelloni metropolitani. Nacquero in questa atmosfera di ”presa di distanza” i primi collage (con strappi e assemblage anche di oggetti veri) e poi la serie dei Grandi nudi. Qui, il corpo era una sagoma inanimata in un set teatrale-domestico, oberato dai primi piani, da smisurati ”paesaggi” della quotidianità raccontati attraverso inquadrature gigantesche, con le linee morbide di Matisse. Nel 1961 Tom Wesselmann espose in una personale e l’anno dopo era alla Sydney Janis Gallery di New York, inserito in una collettiva sui ”The New Realists”. La sua principale fonte economica mutò repentinamente: via le vignette, spazio totale ai dipinti. Wesselmann divenne così un pittore consacrato. E molto vezzeggiato: tra i vari Lichtenstein, Dine, Johns e Rosenquist, sarà quello che più facilmente attirerà lo sguardo dello spettatore. Le sue figure femminili saranno le icone di un’America che interiorizza la simulazione pubblicitaria e la trasforma in realtà tout court. Ma Wesselmann non amò mai essere etichettato come Pop né digerì troppo l’essere inserito dai critici in un gruppo. Rivendicò la sua unicità - nonostante l’apparente serialità delle sue opere - e la sua originalità ogni volta che poté, fino a scrivere una monografia su di sé in terza persona e mascherando l’autore con uno pseudonimo come Slim Stealingworth. ”Dopo la mia prima personale alla galleria Tanager - confessò - non ero ancora convinto di dedicare la sua vita all’arte. Realizzavo collage perché ero impaziente e non sapevo dipingere, non l’avevo mai fatto, mi ero avvicinato a quella materia come un furfante, con l’idea di fare pitture eccitanti...”. Da quest’impeto - terminato il periodo dei collage con strappi - vennero fuori i famosi nudi classici ma rivissuti da una prospettiva urbana che li collocava nell’immaginario direttamente prelevandoli dai bordi delle strade, personaggi di carta che ammiccavano al voyeur di turno come fossero veri. Alla pratica dell’anonimato e alla stardadizzazione della tecnica professata dai Pop, Wesselmann non ha mai creduto: le sue girls apparivano su plexiglas e metalli laccati ma mantenevano intatta un’anima, magari quella rubata ai cartelloni pubblicitari che l’artista recuperava dai cestini dell’immondizia. Ma pur sempre un’anima. Tanto che in un quadro come Bathrub Collage #2, una donna dipinta che gorgheggia al telefono viene contrapposta, in 3D, a una tavoletta del wc realissima con tanto di rotolo di carta igienica. Gli inserti di oggetti veri divennero una costante e Wesselmann dirà di aver rivoluzionato il genere del collage, dimenticando però che dietro di lui c’era già stato Picasso con i suoi pezzetti di sedie impagliate spiaccicate sulla tela. La stagione dei Grandi nudi venne rimpiazzata ben presto da un nuovo amore: nature morte che catapultavano in faccia allo spettatore - col loro ciclopismo esagerato - monumenti alla quotidianità come radio, bottiglie, sigarette, lontani da qualsiasi ”ghetto” intimista. Labbra come still life, dettagli macroscopici, unghie con smalto e tante bocche che fumano: il ciclo degli Smokers s’inaugurò per caso, davanti a un’amica e una sigaretta che pendeva dalle sue rossissime labbra. La seduzione femminile ora è un ”cut” cinematografico del corpo, una parte-feticcio, merce per un consumo erotico e glamour. Gli anni Ottanta segnarono per Wesselmann un ulteriore processo di astrazione: tornarono i collage, incisi in lastre di alluminio, irreali superfici lucide, quasi dei ”disegni di acciaio”. E fedele alla finzione, quest’artista ha chiuso la sua carriera con i remake dei Grandi nudi, scomposti in nuove versioni» (Arianna Di Genova, ”Il Manifesto” 21/12/2004). «[...] Delicato e abbagliante, con le silhouette femminili piatte, enigmatiche, rarefatte dei suoi Great American Nudes si era imposto subito, fin dall’inizio degli anni 60, come il più ricercato dei pop artisti e, in fondo, era logico che egli stesso non accettasse di farsi affibbiare etichette che gli sembravano strette e semplicistiche. ”Questo termine, pop, non mi è mai piaciuto, non mi appartiene”, aveva detto [...] ”Sono un pittore figurativo nella lunga scia evolutiva dell’arte figurativa. Non c’è alcuna definizione pop che possa spiegare la mia arte”. Era molto colto, molto ”europeo”, il maestro di Cincinnati. Giustamente la critica Lucy Lippard aveva sottolineato che i nudi di quelle sophisticated ladies fondevano ”gli arabeschi e la brillantezza cromatica di Matisse con la linea sinuosa di Modigliani e con la struttura rigorosa di Mondrian”. Ma neppure ad altri critici, come Rublowsky, era sfuggito come Wesselmann fosse il continuatore di quella ”classicità moderna” interpretata in modo sublime da Matisse nel XX secolo per la sua attenzione nei confronti della struttura compositiva e dei problemi dello spazio. Last but not least , Wesselmann si era nutrito della lezione dell’espressionismo astratto di de Kooning, delle tematiche del Surrealismo, insomma di tutti quei contributi che lo avevano catapultato nella rivoluzione pop con un bagaglio privilegiato, estremamente ricco e ricercato. Detto questo, però, bisogna riconoscere che Wesselmann pop lo era, eccome. Il linguaggio impiegato e la capacità di riusare con sorprendente sapienza le tecniche commerciali dei cartelloni pubblicitari lo legavano indissolubilmente a Warhol e Lichtenstein, a Rauschenberg e Johns, a Oldenburg, Rosenquist e Dine (per citare i più grandi) nel definire una nuova identità della cultura e dell’arte d’oltreoceano prima di conquistare il mondo intero. Com’era irresistibilmente pop, ad esempio, la serie degli Still life degli anni 70, le nature morte tipicamente americane costruite, sempre a campiture piatte e giustapposizioni di colore, sulla base di oggetti comuni della vita americana, dalle scatole di birra agli apparecchi radio, dalle bottigliette di bibite ai pacchetti di sigarette e alle finte facciate di edifici. E se, rispetto ai Grandi nudi, queste opere possono apparire più fredde e volutamente impersonali, esse rimangono un’interpretazione scintillante e indimenticabile del consumismo popolare mad e in Usa. Un’ispirazione riconfermata in un’altra serie, quella degli Smokers, le gigantesche labbra femminili da cui pendono sigarette accese e fumanti a riprova del trade-mark di Wesselmann: la capacità di mantenersi miracolosamente in equilibrio tra le dissacrazioni pop e il classicismo moderno» (Massimo Di Forti, ”Il Messaggero” 21/12/2004). « C’è un’immagine riassuntiva, per ricordare l’artista pop-americano Tom Wesselmann, [...] quella lustra e specchiata Stanza da Bagno n.1 (Wesselmann non amava i titoli troppo espliciti, esplicativi o narrativi, per cui ricorreva spesso al numero di matricola, come se la sua produzione simulasse un catalogo di vendita per corrispondenza) che è una sorta di icona terza della Pop Art (dopo la Coca Cola di Warhol e il fumetto a retino fotografico di Lichtenstein). Manifesto iper-popolare, immagine-richiamo da manuale di arte contemporanea, felice copertina di libri Einaudi o Lerici. Ed eccoci immediatamente dentro una situazione quotidiana e abituale, una tranche de vie perfetta (e inquietante) come una serata qualunque da soap opera americana (Wesselmann veniva dal relativamente profondo Ohio di Cincinnati e ammetteva d’esser stato segnato dalla lettura dell’allora considerato pornografico Tropico del Cancro di Henry Miller. Ma non voleva cedere alle seduzioni libresche). Non Psycho ansiogeno, dunque, e nemmeno gioco ironico-post-moderno, da romanzo-decalcomania di Donald Barthelmy. No, proprio la vita tel quel, come cantava la canzone di moda in quegli anni Tell it like it is, dì le cose come stanno, senza tanti fronzoli o complicazioni (certe sue tele hanno inserito un transistor funzionante e puoi sceglierti la tua musica). Così l’opera sembra davvero un trompe l’oeil di situazioni comunissime, come la seduta d’una qualsiasi donna nuda, in una bagnarola di Degas o di Bonnard, immediatamente trasferita in un appartamento americano negli anni Lyndon B. Johnnsohn. E se allunghi la mano, ecco che puoi toccare la rugosità della carta igienica o la tovaglietta da bagno, vera, come un inserto di pura realtà: puoi asciugarti le mani (dopo essertele lavate, Pilato dell’estetica) in quel pezzo vero di realtà. Ritorno alle cose stesse, come predicava la Fenomenologia di moda, o il Nouveau Roman? Certo, quando Wesselmann parlava della sua pittura, sembrava aver letto il Roland Barthes di Mitologie o del Grado Zero della Scrittura, perché manifestava questa smania di ritornare alle icone semplici, cartellonistiche, prive d’ogni pathos, rassicuranti e secondo un bricolage casalingo di figure ritagliate e rimontate. Dopo anni di devozione triste alla pittura gestuale del dripping di Pollock e De Kooning, dopo mesi e mesi di crisi psicologica (andava all’Accademmia, per tracciare una riga soltanto e poi non sapeva più muovere la mano e i pennelli) Wesselmann entra (in tutti i sensi) in psicoanalisi e considerara ora la rinnovata, sfogata pittura come una terapia. Cancella via i titoli filosofici, contiene la sua soggettività espressionisteggiante, rinnega la tentazione d’astrazione d’avanguardia, e si mette a raccontare i suoi sogni erotici, a rimontare i suoi desideri, da buon feticista e voyerista risolto. Primi piani cinematografici di bocche maliarde, avvolte dalle volute promiscue del fumo (che presto diventa scultura). Gambe di donne, che fuoriescono languide dalla vasca (ma in modo diverso dal kitsch pin up di Melos Ramos o dalle perversioni da design inglese di Allen Jones). La matrice è soprattutto quella del découpage di Matisse, se non di Ingres: solo che queste odalische sono piene di patatine fritte e hot dog, stillanti di ketchup, ma anche qui, non nel modo deforme, e giganteggiante e clownesco di Oldeburg. Perché Wesselmann, che è un vero, tranquillo integrato, non vuole tentare nemmeno una critica apocalittica del consumismo, alla Andy Warhol (che prende a bersaglio delle icone riconoscibili, dei ”ritratti” -che siano la Coca Cola o Jacqueline Kennedy. Come Rosenquist, che strazia Joan Crawford). No, Wesselmann ritrae sempre la vita qualunque, sacralizza la banalità, omaggiandola come un’immaginetta ironica. E se ritorniamo a quella sua iniziale, germinale Stanza da Bagno, ci accorgiamo solo adesso che, mentre tutto intorno è così vero, fotografico, ritagliato, da trarci in inganno, in realtà la figura di donna che si asciuga ha sì un netto profilo, è stagliata come una silhouette, ma è vuota dentro, e non ha volto. Wesselmann, che ha iniziato nel ’58 con dei collages astratti, alla Schwitters, in realtà ha poco a che fare con la matrice new-dada della Pop, forse è più vicino ai Nouveau Réalistes europei, capeggiati da Restany, che diceva: ”Gli americani sono romantici nel cuore, cubisti nella testa, barocchi nel tono”. Wesselmann ha voluto cancellare tutto questo: è entrato in dieta e ha inseguito soltanto il proprio principo del piacere. Forse, avrebbe diagnosticato Freud, restando alla fase orale. Ma con piacere e fedeltà: ai suoi nudi, ai suoi galleristi, alle sue fissazioni» (’La Stampa” 21/12/2004).