L’Indipendente, 05/12/2004 pag.1, 2 e 3, 5 dicembre 2004
Sì, ma i soldi? Le spese della costruzione del Teatro alla Scala ammontarono a circa un milione e quattrocento mila lire milanesi
Sì, ma i soldi? Le spese della costruzione del Teatro alla Scala ammontarono a circa un milione e quattrocento mila lire milanesi. Non poco, se si pensa che allora la paga di un operaio si aggirava intorno a una lira al giorno. Di questi soldi, la gran parte fu a carico dei palchettisti che sostanzialmente anticiparono l’acquisto dei palchi. I proprietari delle prime tre file di palchi erano le stesse famiglie che possedevano le prime tre fila di palchi del Teatro Ducale: tra queste, i marchesi Pompeo Litta Visconti Arese, i conti Greppi, i duchi Serbelloni, Crivelli, Bigli, Stampa di Soncino. Il governo austriaco, dalla sua, contribuì con circa 240.000 lire, tenendosi il palco reale, un palco di proscenio e altri quattro palchi. Non solo. Cedette a un prezzo di favore il terreno, espropriando anche le case intorno all’area, e garantì l’esenzione dei dazi sui materiali di costruzione. Se relativamente facile era stato risolvere la questione dei soldi per la costruzione, decisamente più complessa sarebbe stata la gestione del bilancio, i cui conti non tornarono mai. I palchettisti erano stati esonerati dai contributi per la gestione degli spettacoli e pagavano solo una quota stagionale, che certo non bastava a coprire le spese. I Cavalieri Associati che gestirono il teatro dal 1778 al 1788 persero 24.000 zecchini, per non parlare di quelli che seguirono nell’impresa. I proventi del gioco d’azzardo e delle botteghe, i biglietti per il loggione e la platea, i contributi amorevoli dei mecenati aiutarono, ma non risolsero. I lavori in corso procedevano spediti e imponenti se, nel numero 38 de La Gazzetta Universale del 13 maggio 1777, si leggeva: «Il nuovo Teatro che si va erigendo sopra il suolo dove era l’antica Chiesa di Santa Maria alla Scala, e della Canonica quivi annessa, si vede giornalmente avanzarsi, essendo le mura maestre alte da terra alcune braccia. Vi lavorano ogni giorno più di 300 persone, e per quanto si vede riuscirà uno dei più magnifici, e comodi teatri d’Italia, per l’architettura, per il prospetto, e per l’estensione». A Pietro Verri non piacque la facciata «bellissima in carta, e mi ha pure sorpreso quando la vidi prima che si mettesse mano alla fabbrica; ma ora quasi mi dispiace. Questa facciata poi è piantata dove era il fianco della Chiesa della Scala, e così, vedi, non ha piazza avanti a sé». Intorno al Teatro, infatti, si ergevano allora case piuttosto disadorne; per avere la sua piazza, la Scala aspettò il 1857 e tale fu l’armonia che ne derivò che parve tutto in qualche modo preordinato dal Piermarini. Se l’esterno aveva destato qualche perplessità, l’interno, con i suoi tremila posti, colse di sorpresa gli spettatori che mai avevano visto tale uniformità e simmetria di costruzione: «Se ti ho fatto le note critiche sulla facciata che di rilievo ha grandi imperfezioni, io ti farò l’elogio dell’interno di questa magnifica fabbrica», scriveva ancora Pietro Verri al fratello Alessandro il 5 agosto 1778, due giorni dopo l’inaugurazione. Sei ordini di palchi esternamente tutti uguali verso la platea, compreso il loggione dove saliva il popolo. Unica concessione lo stemma gentilizio della famiglia del palchettista posto sulla balaustra; fino al 1798 quando, in nome dei nuovi principi democratici, i palchettisti furono costretti a cancellare ogni simbolo del loro lignaggio. Il risultato dovette essere sorprendente e meraviglioso se Stendhal, innamorato di Milano come solo un romantico poteva e può essere, nel 1816 scriveva: «Arrivo alle sette di sera, stanco morto: corro alla Scala. Il mio viaggio è pagato [...] Corro a questo primo Teatro del mondo [...] Chiamo la Scala il primo teatro del mondo, perché è quello che da il massimo godimento musicale, [...]un’impressione di vero e proprio rapimento».