varie, 17 dicembre 2004
BIANCHI
BIANCHI Emilio Sondalo (Sondrio) 22 ottobre 1912. Palombaro • « [...] l’ultimo superstite dell’impresa di Alessandria d’Egitto, dove sei incursori misero fuori combattimento le navi di punta della flotta inglese nel Mediterraneo [...] ”Non è andata così”. Non come è scritto nei libri, come ha detto la tv, come ha raccontato il cinema. ”I libri dicono che Luigi Durand de la Penne ha affondato la Valiant. Le relazioni sono scritte in prima persona, come se avesse agito da solo: il suo secondo, dicono, è stato messo fuori gioco da un malore. Il secondo ero io. E sono rimasto al suo fianco sin quasi all’ultimo, sono riemerso un minuto, un minuto e mezzo prima di lui. Non è possibile che de la Penne sia rimasto sotto senza di me per tre quarti d’ora, come ha raccontato e come recita la versione ufficiale, trascinando a forza di braccia il maiale. L’abbiamo portato insieme fin sotto la corazzata inglese. Ho sbattuto la testa contro lo scafo della Valiant, ci ho passato sopra le mani nel buio, a tentoni, rovinandole sopra i denti di cane, alla ricerca del punto in cui piazzare la carica esplosiva. Sono risalito all’ultimo momento utile prima di perdere conoscenza. Però tutto questo nei libri non c’è [...] Ho scritto a Durand de la Penne per esprimere le mie ragioni, ma non ho avuto risposta. E quando ho posto la questione alla Marina, l’ultima volta qualche anno fa con una lettera all’allora capo di Stato maggiore De Donno, mi hanno detto che ormai era tardi per rivangare vecchie storie”. La sua vicenda di palombaro comincia in alta Valtellina. ”Avevo visto un manifesto a Sondalo, il mio paese: diventa marinaio, girerai il mondo. Era la prima volta che il segretario comunale riceveva una domanda per la Marina. Avevo 17 anni, ero avanguardista, ma di politica sapevo poco: volevo l’avventura che avevo letto nei romanzi di Salgari e Stevenson. Divenni incursore. Ci allenavamo a penetrare nel porto di La Spezia, all’insaputa delle sentinelle, che non solo non sapevano delle esercitazioni ma neppure della nostra esistenza”. La sua prima missione è a Gibilterra, accanto a nomi leggendari: Teseo Tesei, Gino Birindelli, e appunto Luigi Durand de la Penne, con cui Bianchi sale a cavalcioni del siluro a lenta corsa, in gergo maiale . ”Tutti e tre vanno in avaria. Il nostro affonda lentamente. Comincia a mancare l’aria. Scendiamo molto sotto i 30 metri considerati allora il limite di sopravvivenza. Ma quando nel buio cerco de la Penne lui non c’è più, è già risalito. Lo raggiungo e nuotiamo sino alla costa spagnola, dove attendono gli agenti segreti che ci riportano in Italia. Veniamo ricevuti da Mussolini. Non capiva molto delle tecniche subacquee, ma ne era affascinato. Riprovateci, disse”. ”L’attacco ad Alessandria era programmato per la notte tra il 17 e il 18 dicembre 1941, ma il mare burrascoso indusse Junio Valerio Borghese a muovere il suo Scirè la notte successiva. Borghese era un comandante straordinario, uno che nella tempesta o sotto le bombe si sedeva imperturbabile a dare ordini. Passiamo indenni attraverso i campi minati. Tre o 4 miglia a Est dell’ingresso del porto saliamo sui maiali. De la Penne è a prua, con la testa fuori dell’acqua, e respira quasi sempre l’aria atmosferica; io sono a poppa, una spanna sotto il pelo dell’acqua, e respiro la miscela del sacco-polmone (allora non c’erano bombole). Altri comandanti non disdegnavano di invertire la posizione con il loro secondo; in mare non contano solo i gradi, ma anche l’esperienza e il coraggio, no? Fatto sta che arriviamo alla rete che protegge il porto proprio mentre gli inglesi la stanno aprendo: un colpo di fortuna. Ci infiliamo nella scia di tre cacciatorpediniere, e non è vero quel che è stato scritto, che rischiamo la collisione. Tutto fila liscio. Fino all’ostacolo imprevisto”. ”La Valiant, il nostro obiettivo, è protetta da una seconda rete. De la Penne la scavalca e comincia a tirare il maiale , io lo spingo, ma qualcosa lo trattiene, non va più avanti né indietro; salgo in piedi sulla relinga, il cavo che lega la rete alle boe, insisto, fino a quando non si sblocca. Ora ci siamo quasi. Propongo di scendere sotto la carena della nave per individuare il punto dove l’esplosione può fare il massimo danno, ma de la Penne dice di andare direttamente sotto l’aletta di rullio perché è stremato e non ce la fa più. Urtiamo nello scafo, comincio a tastarlo con la mano, ma il maiale va in avaria e comincia ad affondare. Mi viene ordinato di controllare se qualcosa ha inceppato le eliche, obbedisco anche se comincio a sentirmi male, non trovo nulla. Scendiamo sul fondo, a circa 12 metri di profondità. De la Penne risale in perlustrazione, poi torna giù. Io sto sempre peggio, da troppo tempo respiro la miscela, avverto i sintomi dell’intossicazione da ossigeno: mi gira la testa, mi sento mancare. Risalgo appena in tempo e resto qualche secondo a galla. Sono proprio sotto bordo e gli inglesi mi vedono subito. Puntano un riflettore. Raggiungo la boa cui è ancorata la nave e sto lì, come un gabbiano, ad aspettare. Subito dopo, nello stesso punto in cui sono emerso io, riappare de la Penne. Che non ha certo avuto il tempo di trascinare la carica esplosiva: non poteva mica portarla da solo a braccia, e in ogni caso non ce ne sarebbe stato bisogno, eravamo già sotto la nave. Ma del mio contributo la sua relazione non parla”. ”Ci catturano. Due ufficiali, gli unici che sanno l’italiano, ci interrogano separatamente. Nessuno racconta nulla. Ci chiudono in una cala sotto la linea di galleggiamento”. Riferisce de la Penne che i marinai inglesi vi schernivano, pensando che aveste fallito la missione. ”Ma no. Gli inglesi erano correttissimi. E poi né io né lui sapevamo una parola della loro lingua”. De la Penne però avverte il comandante che la carica sta per esplodere, di mettere in salvo l’equipaggio. ”Si sarà fatto capire a gesti. Poi la nave salta in aria davvero. Ce la caviamo. Ci portano tutti in un campo di concentramento in Palestina. Progettiamo la fuga, scaviamo un tunnel dal gabinetto fin sotto il primo reticolato, ma l’evasione fallisce. Sono mesi duri, e i nostri rapporti ne risentono. Io ho l’incarico di cucinare. Un giorno mentre sto lavorando de la Penne mi fa: portami gli zoccoli. Lui mi dava del tu, io del lei. Gli ho risposto: guardi che io non sono il suo attendente. Si è infuriato, mi ha minacciato di farmela pagare al ritorno, per giorni non ci siamo parlati. Poi gli ufficiali sono stati trasferiti in India, e noi in Sud Africa. Sono rimasto sino al ’45 perché non me la sono sentita di passare dalla parte degli inglesi”. Bianchi dice di non aver mai steso la sua relazione sulla notte di Alessandria. ”La Marina non me l’ha mai chiesta. Ho stampato il mio racconto presso un piccolo editore di Viareggio, ma gli accademici non se ne sono accorti”. L’ufficio storico della Marina custodisce però sei pagine dattiloscritte, sotto il titolo ”relazione Bianchi”. [...]» (Aldo Cazzullo, ”Corriere della Sera” 17/12/2004).