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 2004  dicembre 12 Domenica calendario

Barbetta, panciotto, mano sul fianco e sull’epigrafe le parole «Garibaldino – pensatore pubblicista – apostolo della pace fra libere genti»

Barbetta, panciotto, mano sul fianco e sull’epigrafe le parole «Garibaldino – pensatore pubblicista – apostolo della pace fra libere genti». A immortalare Ernesto Teodoro Moneta, unico (e dimenticato) premio nobel per la Pace italiano, c’è solo una statua in marmo di Carrara nascosta in un angolo dei giardini pubblici di Porta Venezia a Milano, dove un piccolo Pantheon invaso dalle ortiche, ricorda altri letterati e eroi garibaldini. Posta lì nel 1924 da alcuni suoi amici e discepoli, viene rimossa nel 1937 dalle autorità del regime fascista, che proprio non sentono il bisogno di celebrare eroi della pace, e ricollocata allo stesso posto all’indomani della Liberazione. Tra i tanti premi Nobel che vanta l’Italia l’unico ingiustamente vittima di una totale amnesia da parte di storici, pacifisti e concittadini, è proprio Ernesto Teodoro Moneta. Vediamo allora di scoprire chi è e perché ce lo siamo dimenticato. Militante pacifista, nazionalista ma cosmopolita, religioso ma anticlericale, attore per diletto, cavallerizzo appassionato, crociato dell’attività fisica eppure tanto pigro da prendere il tram per attraversare la piazza che divide il suo ufficio dal ristorante dove pranza ogni giorno; Moneta era in sintesi un sincero anticonformista, ovvero la caratteristica di cui più si diffidava, e ancora si diffida, in Italia. Quartogenito di quattordici fratelli, nasce a Milano nel 1833 in una famiglia aristocratica ma ormai decaduta che per mantenere un tenore di vita decoroso decide di ritirarsi in campagna. La sua vita, intensa e affascinante, può riassumersi in tre periodi distinti ma legati dall’ardente passione per la libertà e la giustizia: quello del combattente risorgimentale, quello dell’attività giornalistica, come direttore del Secolo e il periodo di più energica propaganda pacifista che gli vale il riconoscimento dell’Accademia svedese. Ma cominciamo dall’inizio e cioè da quando, quattordicenne, durante le Cinque giornate di Milano, lasciato dal padre Carlo, fervente patriota e repubblicano, e dai fratelli maggiori a proteggere le donne della famiglia, dalle finestre di casa assiste all’agonia di tre soldati austriaci. «Io li vidi, coperti da una stuoia, due ore dopo; uno di essi, che doveva soffrire terribilmente, mandava i rantoli della morte. Allora avvenne nell’animo mio un subitaneo rivolgimento. Quella lotta, alla quale io pure avevo un po’ partecipato, e che mi aveva immensamente esaltato, come opera gloriosa e santa, ora mi appariva come cosa assolutamente barbara e crudele e inumana. Pur riconoscendo, anche in quel momento, che la insurrezione e la guerra per la liberazione di un popolo dalla dominazione straniera sono una suprema necessità e un diritto degli oppressi, sentii per istintiva intuizione, che il primo e sacrosanto dovere della civiltà è quello di dar opera perché le questioni di nazionalità e ogni altra di carattere internazionale siano risolte con forme giuridiche, senza le stragi. Questi due sentimenti - quello del diritto che ha ciascun popolo al pieno esercizio della sua autonomia e quello del dovere dei governi liberi e più civili di mettersi d’accordo perché una legge di giustizia imperi un giorno non lontano su tutte le nazioni piccole e grandi - rimasero d’allora in poi, sempre impressi nell’animo mio, e sono quelli che diedero la direzione a tutta la mia vita». in quel momento, quindi, che Moneta matura il rifiuto della guerra e delle sue atrocità.