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 2004  dicembre 14 Martedì calendario

Vendola Nicola

• Bari 26 agosto 1958. Politico. Comunista. Presidente della Regione Puglia (dal 2005, rieletto nel 2010) • Laureato in Lettere fu, in qualità di giornalista professionista, redattore del settimanale ”Rinascita” ed editorialista del quotidiano ”Liberazione”. Ha pubblicato libri di poesie e saggi. Dichiaratamente omosessuale, fu tra i promotori della Lila, Lega italiana Lotta all’Aids, e dell’ArciGay. Credente, è vicino all’esperienza di ”Pax Christi”. Nel 1972 si iscrisse alla Fgci di cui fu membro della segreteria nazionale dal 1985 al 1988. Nel 1990 entrò a far parte del Comitato centrale del Partito comunista italiano. Dopo lo scioglimento del Pci fu tra i fondatori del Partito della Rifondazione Comunista e divenne membro della Direzione nazionale. Eletto alla Camera dal ”92, il suo maggiore impegno si svolse nella commissione Antimafia, della quale fu anche vicepresidente • «[...] ”Io sono un delirio di emozioni”, dice di sé Vendola che, alla nascita, nel 1958, fu registrato Nicola, ma fu subito ribattezzato Nikita da papà Francesco, in onore di Kruscev e della destalinizzazione. Ancora oggi Nikita, detto Nichi, è la contraddizione vivente dell’estremismo perché è vero che milita in Rifondazione, anch’egli tentato dai vecchi slogan ammuffiti del comunismo che la storia ha ridotto a deserti dell’intelligenza. Ma è anche vero che la sua gentilezza disarmata fa più male all’estremismo di un’intera squadra di manganellatori: ”Anche nella radicalità del contrasto io non appartengo alla sinistra del treppiedi”. E infatti Vendola è fiero di non avere ”mai né dato né minacciato, in tutta la vita, un solo schiaffo”, neppure a quel deputato di Forza Italia, Ilario Floresta, che alla Camera, durante una rissa, gli mostrò i denti e gli gridò che gli avrebbe staccato con un morso l’orecchio e che lo avrebbe pure ingoiato ”ma solo dopo aver sputato nel cesso l’orecchino”. Vendola è estremista non per scelta, ma perché gli altri lo hanno stabilito. Una personalità gentile è infatti un estremista solo nel senso che la gentilezza lo pone all’estremo del mondo drammatico degli interessi e degli apparati, lo colloca nell’inattualità, nel limbo delle qualità senza spazio e senza tempo, dove anche il comunismo può diventare il suo contrario e cioè modestia e amabile rispetto, una riconoscenza leggera fugace e reciproca, una complicità ingenua, prepolitica e antipolitica, con la complessità sociale. La politica come gentilezza, la politica come politesse è dunque l’ultima trovata del più geniale laboratorio italiano, del pasticcio meridionale, che ancora una volta esprime la propria infamiliarità con il potere e con i suoi uomini. Al punto che con Vendola persino la parola comunista diventa l’aggettivo simbolo - pensate al paradosso - della più disarmata e disarmante non violenza. Una volta che a Terlizzi si trovò di fronte a un esagitato che davvero voleva picchiarlo, uno del quale non vuol fare il nome ”perché adesso siamo amici”, ebbene davanti al braccio alzato chiuse gli occhi e aspettò la botta: ”Eppure io sono un fifone nato”. [...] è il primo masaniello delicato e persino un poco effeminato della storia d’Italia. Piccolo di statura, timido, i capelli a caschetto, dopo ogni comizio telefona alla mamma, si commuove per niente ed è facile alle lacrime come si addice al Sud d’Italia. Persino la sua omosessualità è rassicurante perché mai scandalosa né provocatoria, non è un luogo di vizio e di morbosità ma di dolcezze romantiche e di solidarietà leale. E Vendola non è bello [...] sta a disagio dentro giacche troppo larghe ma non è goffo, si veste come nel sud tutti si vestono tranne i gagà, con una eleganza sbrigativa e vaga che farebbe inorridire gli esperti di look e i sociologi i quali, presi nella loro ricerca di rigore e di regole, la mettono dura con la società delle immagini e delle apparenze facendo finta d’essere i soli saggi del manicomio Italia. Ed è un successo che la dice lunga sulla ricchezza culturale di un mondo che è il luogo del pregiudizio, ma di un pregiudizio spesso ammiccante di simpatia. Solo in una capitale del sud come Bari le donne popolari della città vecchia e quelle dei quartieri murattiani già nel 2001 potevano salutare il loro Nichi alla testa del gay pride lanciando petali dalle finestre ”come si fa quando passa il santo”. Mamma Antonetta, casalinga e donna all’antica di Terlizzi, ricorda ancora il giorno in cui una nipote le aprì gli occhi sul terzo dei suoi quattro figli: ”Ci siamo pentiti di averne sofferto e oggi siamo orgogliosi, anche se di sesso parliamo per accenni e per sottintesi”. Nichi portava in casa le fidanzatine: ”Ne ricordo una, Aurelia. Era bellissima. Ed è vissuta in casa con noi e con Nichi per più di un mese”. Ma gli apparati del Centrosinistra sono molto più indietro delle mamme pugliesi, e dunque non lo volevano candidare alla presidenza della Regione, pronti a imboccare la scorciatoia dell’intolleranza. Una volta, nel comitato centrale del Pci, l’autorevole compagna Marisa Rodano disse rivolgendosi indirettamente a lui: ”Se uno di questi mettesse le mani su uno dei miei nipotini gli darei subito una sberla”. Si dibatteva dei diritti degli omosessuali, dei carcerati, di tutte le minoranze e Vendola, che stava già nell’Arcigay, predicava la liberazione dei ”soggetti smarriti” che è il titolo del suo primo libro, dedicato al mondo che chiama capovolto e che per lui è ”comunismo”. facile prendere in giro il poeta omosessuale, comunista e non violento, il rivoluzionario con la lacrima facile, il cattolico che dice: ”Il libro più importante per un comunista come me è la Bibbia”. Ma anche la chiesa pugliese gli dà una mano, persino finanziariamente, perché Vendola fa spesso la comunione, praticante anticonformista che vorrebbe andare a messa tutti i giorni tranne la domenica. il figlioccio spirituale del vescovo don Tonino Bello, del quale ha curato un’antologia di scritti con il titolo Teologia degli oppressi. ”Comunista” anche lui. E ancora il suo comunismo è lo zio Vito, un maestro elementare al quale è stata dedicata una strada, e Gioacchino Giusmundo, che fu insegnante di filosofia di Ingrao al liceo di Rieti, e don Pietro Pappagallo. Entrambi morirono alle Fosse Ardeatine. Del resto a Nichi pare ”comunista” anche quella poesia che scrisse all’età di 7 anni e recitò in classe, in seconda elementare. Si intitolava Mamma. Ha continuato a fare il poeta, si è laureato in Lettere, tesi su Pasolini con Leone De Castris, ma non si prende troppo sul serio quando si esercita nel settenario giambico: ”Non credere che i giorni/ dei laghi e dei pantani/ si intrighino ai ritorni / e mutino in volani / in cavallucci storni / in astri assai lontani”. In realtà Vendola considera la poesia come una sua perversione e si piace soprattutto come verseggiatore di circostanza, filastroccaro senza pretese: ”C’era una volta una piccola bocca che ripeteva la filastrocca di una gattina color albicocca che miagolava in una bicocca dove viveva una fata un po’ tocca che raccontava la storia bislacca di una bambina che sta sulla rocca e che ripete la mia filastrocca nata un po’ allocca e cresciuta barocca...”. Comunismo anche questo? La sua raccolta di versi, L’ultimo Mare, è stata entusiasticamente recensita dal ”Secolo d’Italia” che gli ha attribuito, con la firma di Nicola Vacca, ”il leopardiano pensiero poetante”: ”La voce della sua poesia riconsegna ai mutamenti una grande speranza”. La grande speranza che Vendola propone è ”una nuova maniera di ragionare e di parlare”, ”una rivoluzione mite e gentile”, ”lo spiazzamento come stile di governo”, ”il ribaltamento dei codici della politica non più tattica militare”, ”la passione come strumento per amministrare le risorse”, ”la centralizzazione del flusso di emozioni popolari”... Difficile capire cosa voglia dire questo comunismo ma forse vale la pena tentare. Certo, si corre qualche rischio ad applicare la modernità ai campanili del sud, ai luoghi d’Italia che sempre hanno subito la politica e molto più degli altri sono capaci d’insorgere e di sfruttare ogni occasione per far saltare il linguaggio della formale gabbia d’acciaio di Weber che qui non attecchisce. Si corre il rischio della demagogia e del populismo, il rischio della filastrocca. Ma forse con Vendola davvero ne vale la pena» (Francesco Merlo, ”la Repubblica” 18/1/2005). «[...] ai comizi va in giacca, cravatta e cappotto di pelle. Tutto nero e grigio, come un boss della mafia giapponese. Di sicuro, però, alla mafia pugliese sta pesantemente antipatico. Dieci anni di commissione Antimafia e tante battaglie sul campo contro la Sacra corona unita fanno sì che giri sotto scorta. [...] Non pago di definirsi gay, credente e comunista [...] Dice che da piccolo aveva paura di tutto, ma poi la politica lo ha guarito. Confessa che oggi teme solo le amnesie ai comizi, ma a vederlo sembra un deputato radicale dei bei tempi. [...] Massimalista? Vendola fa spallucce e ribatte che ama la politica vera, quella che si batte per i principi, senza tatticismi. Insomma, una serie di ditate nell’occhio, come direbbe don Ciotti. Con l’aggiunta di non essere il tipo che firma gli autografi pure sui santini della Madonna, come da queste parti è accaduto a Massimo D’Alema. [...] Di punto in bianco è capace di rivendicare ciò che ha imparato dalla lezione socialista: il garantismo e la prevalenza della persona sulla ragion di Stato e di partito. [...]» (Francesco Bonazzi, ”L’Espresso” 20/1/2005). «[...] Nel 1994 fui candidato dai progressisti nel collegio di Bitonto. Sulla carta era una impresa tremenda. Sono riuscito a vincere, in elezioni che in Italia e ancora di più in Puglia furono stravinte dalla destra [...] Io penso che se ci sono pregiudizi nei miei confronti, questi vengono da una lettura iperpoliticista piuttosto che da pregiudizi di altra natura [...] Tutti sanno che questo problema non mi ha certo impedito di essere eletto in Parlamento con molti voti. [...]» (Fabio Martini, ”La Stampa” 14/12/2004). «La sua spiegazione non è politica ma poetica: ”Ho vissuto accompagnandomi a quanti giacevano sotto la piramide sociale. Non c’è cancello di fabbrica davanti a cui non abbia passato un’alba, non c’è carcere, ospedale, comunità terapeutica in Puglia che io non conosca”. [...] omosessuale dichiarato. Omosessuale, non gay. Vendola non è un tipo allegro. ”Narro l’oscenità del potere, libero frammenti di umanità ferita”. Non sorride neppure sui manifesti: guarda l’elettore con occhi seri, scuri, di profondità ai limiti della cupezza. ”Faccio fatica a sorridere al di fuori della mia sfera ludica”. Ha gioito quando il Gay Pride sfilò a Bari, ”Fini consigliò di chiudersi in casa e invece le popolane della città vecchia lanciarono petali dalle finestre come quando passa il Santo”, ma non si riconosce nel lustrino e nella spensieratezza, tantomeno nel gossip: ”Non amo dare un’immagine variopinta, pirotecnica. Dichiararsi non è pettegolezzo, è carne, fatica, sangue, dolore, emarginazione, offese, violenza”. Parla per esperienza, essendosi dichiarato nel 1978, quando aveva vent’anni e da sei era nella Fgci, con un articolo su un giornale da lui fondato, ”In/contro”. Titolo: ”Le farfalle non volano nel ghetto”. ” un verso che ho trovato in una raccolta di poesie scritte nel ghetto di Varsavia. E ho avuto tutte le difficoltà che potevo avere, nel partito, al Sud, al paese”, Terlizzi, periferia di Molfetta, terra di braccianti. Per questo in passato non apprezzò le confessioni di bisessualità rese da altri politici, ”una dichiarazione che si faceva a 18 anni per fiutare un po’ l’aria. Anch’io sono stato bisex, e avevo fidanzate bellissime. Sono stato sul punto di sposarmi due volte. Ma non ho mai raccontato bugie, ho sempre vissuto quei rapporti da omosessuale”. Storie lontane, ”ho avuto molti amori, ho amato anche donne - dice oggi -. Ho molto sofferto. Non mi sono mai arreso però, non ho mai permesso a nessuno di chiudere la mia storia dentro uno spigolo di rancore. Anche se mi hanno fatto di tutto”. Tempo fa raccontò di quando ”Gasparri di An venne a fare campagna elettorale nel ”94 e tentò di stroncarmi accusandomi di andare con i ragazzini, peraltro pagati per dirlo. Andò via con le pive nel sacco, mentre io ricevevo migliaia di lettere di ragazzi che mi dicevano grazie per avergli dato coraggio”. Anche questa è una storia lontana, ”oggi ho disimparato l’odio”. [...] Dolenti anche la sua formazione, le sue letture: ”Due grandi amori, Lorca e Pasolini. Ho letto Gandhi e Luther King prima di Gramsci e Marx, che pure sono stati importanti. E poi Neruda, Alberti, Pirandello, De Lillo, Dino Campana, Sandro Penna”. Era già di Rifondazione quando c’era ancora il Pci: il movimento, il comunismo nonviolento che allora pareva e forse resta un ossimoro. ”Sono cattolico e comunista, come la mia famiglia. Mi ha affascinato il pessimismo di Quinzio, ho amato i libri del cardinal Martini, e sono stato discepolo del vescovo di Molfetta, il mio vescovo, Tonino Bello”. Ha anche firmato la prefazione dei suoi scritti, comincia così: ”Io ero sull’altra riva, quindi ero un rivale”. Dice di non aver rinunciato alla fede, di credere non alla rivoluzione ma alla conversione permanente, di confidare che Dio saprà capire anche quelli come lui, perché ”Dio non è un tribunale islamico”. Nel tempo libero, sorride. ”Mi piace ballare e arrostirmi al sole sulla spiaggia”. Una volta spariva per 40 giorni in Marocco o in Sud America. Ora resta qui in Puglia con la mamma Tonia, e una settimana con il fidanzato su un’isola greca o spagnola. Cresciuto alla scuola di Dario Bellezza, ha pubblicato tre libri di poesie: Prima della battaglia, Lamento in morte di Carlo Giuliani e Ultimo mare, premio Manduria, in giuria Marcello Veneziani. ”Ma scrivo anche filastrocche per bambini. Sarei un papà bravissimo”. Per laurearsi in filosofia ha fatto il cameriere, il libraio e il correttore di bozze. Nella sua stanza, accanto al ritratto di Giuseppe Di Vittorio, tiene quelli di Gaetano Salvemini, Tommaso Fiore e Aldo Moro. Un’usurpazione? ”No. Io credo nella coalizione di centrosinistra: non mi va di togliere i miei simboli e mi piace aggiungere quelli altrui. Mi piace Prodi, e non mi fa orrore la persona di Berlusconi; solo il suo personaggio. Non è un brigante; è il simbolo di un brigantaggio” [...]» (Aldo Cazzullo, ”Corriere della Sera” 18/1/2005). «[...] rischia di diventare uno Schwarzenegger di sinistra: outsider, trasversale, di grande immagine, popolare e ipermoderno [...] il sarcasmo amaro e il pessimismo retorico, la cultura classica un poco esibita, l’appartenenza dichiarata al ”mondo dei vinti” [...] un’originalità che ha pochi paragoni nella politica italiana e che sarebbe riduttivo e improprio definire semplicemente come ”radicalità” o ”estremismo”. vero: Vendola appartiene alla sinistra della sinistra, è tra i fondatori di Rifondazione dopo una brillante carriera nella Fgci di Pietro Folena, e insieme a Franco Giordano - pugliese e ”foleniano” come Vendola - è da sempre il pupillo di Fausto Bertinotti. Nella sua Puglia ha respirato l’aria della cosiddetta école barisienne, l’antico laboratorio politico ingraiano degli Anni Settanta che ruotava intorno ad Arcangelo Leone De Castris e all’editore De Donato; e di un certo marxismo eretico, luxemburghiano e libertario, può ben dirsi una moderna versione mediatica. [...] Un sito simpatizzante così lo descrive sul web: ”Quello che giorno e notte, pendolare del Parlamento, si è fatto tutta la battaglia di Scanzano, quello che appena eletto deputato se ne parte per la Bosnia a organizzare aiuti sotto le bombe, quello che fa i sit-in davanti ai cancelli della Fiat di Melfi, quello che si ribella col suo popolo contro la chiusura dell’ospedale di Terlizzi, quello che passa i suoi giorni a San Giuliano quando i bambini di una scuola maledetta finiscono sotto le macerie...”. Pare un eroe popolare, un po’ garibaldino un po’ brigante, figlio orgoglioso di un Sud sfruttato e stravolto dalla modernizzazione, squassato dalla criminalità [...] e attraversato da un’onda sotterranea e impetuosa di solidarietà. [...]» (Fabrizio Rondolino, ”La Stampa” 18/1/2005).