8 dicembre 2004
GHIDONI Roberto.
GHIDONI Roberto. Nato a Ludizzo nel 1952. Runner. Tre volte vincitore della ”Iditarod”, la celebre corsa in cani da slitta che da Anchorage arriva a Nome (2002, 2003, 2004). «Vicino alla cappelletta in ricordo dei morti per la peste del 1630 c’è una fontana. Di quelle tipiche di montagna. Con il lavatoio in pietra levigata dallo strofinio dei panni e il tettuccio di coppi per le giornate di brutto tempo. Roberto Ghidoni termina qui ogni suo allenamento. Rompe a sassate il velo di ghiaccio formatosi durante la notte, poi toglie le scarpette da corsa e ancora indossando maglietta e pantaloni vi si immerge sino alla cintola. ”Altro che massaggi o creme defaticanti! Io resto almeno tre minuti nell’acqua ghiacciata. Una bella botta di freddo: è la formula migliore per decongestionare i muscoli e le articolazioni”, dice ”lupo che corre”, come lo chiamano tutti nella frazioncina di Ludizzo, quindici case, compresa la chiesa, a novecento metri d’altezza nel cuore della Valtrompia. [...] dieta rigorosa studiata dai medici della nazionale di sci da fondo. Niente barrette energetiche, nessun reintegratore salino, piuttosto pietanze a base di carote, pane integrale, germe di grano, parmigiano, fichi secchi, noci, pasta, patate, uova, prosciutto cotto, e soprattutto kiwi. ”Tanti kiwi, sono anti-ossidanti, aiutano ad assorbire l’acido lattico nei muscoli”, spiega leggendo il volume dove ogni giorno sono indicati il cibo e le quote caloriche. ”Pazienza se durante la gara dimagrisco. Per oltre venti giorni consumerò quotidianamente tra le 8 e 9.000 calorie, ingerendone al massimo 5.000. Il trucco è insegnare al corpo a perdere peso senza diminuire la potenza”. Ci sono sportivi americani e canadesi che sono rimasti sbalorditi nel visitare il ”regno” semplice e povero di Roberto. Hanno sempre sorriso nel vederlo usare il ”bobbino” della figlia come slitta, valore 20 euro. [...] Per loro è una leggenda vivente. Lo hanno soprannominato ”The Italian moose”, l’alce italiano. Tra gli eschimesi vicino al Circolo Polare Artico è anche noto come ”big foot” (piedi grandi). Un omone nato nel 1952, alto un metro e 96, con il 52 di scarpe, soprattutto il super-uomo che nel febbraio-marzo 2002 in 22 giorni e 6 ore si è digerito i ben 1.800 chilometri d’inverno in Alaska della ”Iditarod”, la celebre corsa in cani da slitta che da Anchorage arriva a Nome. Loro, la maggioranza dei concorrenti arrivati da tutto il mondo, con le slitte e i cani. Lui e una settantina di altri folli solo con le racchette da neve, oppure gli sci e alcuni persino la mountain bike. Memorie da ultima frontiera con temperature che possono scendere sino a meno 45 gradi e venti a oltre 150 chilometri all’ora. Ci sono i villaggi abbandonati del tempo della corsa all’oro, le avventure di Zanna Bianca nei libri di Jack London letti da ragazzino, il senso ancora puro della natura infinita. Per la gente del posto c’è anche il rinnovarsi dell’epopea di Balto, il cane che nel 1925 aiutò a portare le dosi di vaccino per gli abitanti di Nome ammalati di difterite. Il mito di quell’epoca si perpetua ogni anno con l’Iditarod. Nel 2003 l’effetto serra si fece sentire anche in Alaska. Ai primi di marzo si scioglievano i laghi lungo il corso dello Yukon. La gara venne ridotta a 1360 chilometri. Lui vinse egualmente. Tenne medie da capogiro, sino a superare i 100 chilometri al giorno. Imparò a organizzare i rifornimenti inviati via aerea in pacchi-cibo per 3-4 giorni sulle tappe nel mezzo della foresta (uno fu sepolto dalla neve e lui corse 280 chilometri senza mangiare). Il secondo classificato arrivò dopo quattro giorni. Vittoria anche nel 2004. ”Il mio segreto? Vinco perché sono un diesel. La mia velocità è lenta, ma costante. Cammino sino a 22 ore al giorno, poi mi scavo una buca nella neve, scaldo un po’ di cibo, sciolgo l’acqua per la giornata successiva e dormo nel sacco a pelo per un paio d’ore. Sono sufficienti, gli altri ne hanno bisogno dalle quattro alle sei. Se dormo troppo cade il tasso di adrenalina, mi rilasso e sono fottuto”, spiega Roberto. Dal piano alto dell’antica torre romana dove lui vive con la moglie Vanna si vedono i tetti dei capannoni di infinite ”fabbrichette”. Seguono il corso del fiume Mella senza soluzione di continuità, a partire dai grandi complessi della Beretta. ”Ci sono oltre 3.000 industrie in valle, uno spaccato dell’Italia imprenditoriale. Un altro mondo. Avrei dovuto viverci quando mio padre aveva lasciato Ludizzo e si era trasferito a Milano. Mi iscrissi a ingegneria. Ma non ressi, mancavano troppo la natura, la montagna, la fatica fisica, il sudare mentre si taglia il fieno, l’odore delle stagioni. E me ne tornai a Ludizzo, dove oggi ho tredici vacche per la produzione delle formaggelle e un po’ di terreno da coltivare. Mi spiace solo che a causa dell’inquinamento i ciliegi facciano meno fiori anche qui”. ”Lupo che corre” ha tanto da raccontare delle sue cinque stagioni in Alaska. Una notte si accorge che qualcuno sta frugando nel suo bagaglio sulla slitta che trascina un metro e mezzo dietro di lui. un lupo. ”Un lupo vero, di quelli del nord, con zampe larghe, il collo gigantesco, gli occhi che brillano al buio. Per fortuna non è in branco, cerca solo cibo. Basta gridare un attimo e si allontana. Mi seguirà da distanza per molte ore sulla pista di neve resa polverosa dal gelo”. Il pericolo maggiore sono gli alci. Alti, imponenti, con le corna gigantesche, acuminate come fiocine. Sulla neve ghiacciata incontrerà decine di animali sventrati, le costole spezzate e aperti in due dalla forza di una zoccolata. ”Un giorno ne ho visto uno molto distante. Stava piantato a gambe larghe, immobile, nel mezzo del sentiero. Mi era stato detto che avrei dovuto mostrarmi sottomesso. Guai a sfidarlo, mai fissarlo negli occhi. Fui costretto a compiere un enorme semicerchio a piedi, sprofondando sino all’inguine nella neve fresca, pur di evitare la sua carica. Dopo circa mezz’ora di quella sfida singolare, mi guardò con sufficienza mentre arrancavo sudando e con tre salti di una grazia incredibile si dileguò nel nulla”. Ma il rischio più grave l’ha corso in una delle tappe finali. Attraversando la sessantina di chilometri della Baia di Norton, dove in genere tra fine febbraio e marzo il mare è completamente ghiacciato. ”Due anni fa si fece sentire il caldo. Invece dei circa 10 centimetri di spessore abituali, lo strato di ghiaccio non superava i 3 o 4. Nel bel mezzo, a 30 chilometri dalla costa, le onde sotto la superficie facevano oscillare l’intera banchisa. In lontananza intuivo già le luci del faro dell’arrivo sul molo di Norton. Ma avrei potuto sparire da un momento all’altro. Mi salvò solo la dea Fortuna”» (Lorenzo Cremonesi, ”Corriere della Sera” 8/12/2004).