Varie, 30 novembre 2004
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Steiner George
• Parigi (Francia) 23 aprile 1929. Scrittore • «Nato a Parigi da una famiglia di ebrei praghesi e poi emigrato in America nel 1940. Docente in varie università del mondo (tra le altre, Cambridge, Harvard, Chicago, Ginevra), autore di fortunati saggi (Tolstoj o Dostoevskij, La morte della tragedia, Dopo Babele, Grammatiche della creazione e il recentissimo La lezione dei maestri, in Italia pubblicati da Garzanti), ma anche di romanzi come Il correttore, Steiner è una voce fuori dal coro tra i critici e gli studiosi di letteratura. Polemico, com’è, nei confronti delle mode culturali (non soltanto in campo letterario): dalla psicanalisi al femminismo, dal formalismo al postmoderno, fino ai miti del ”politicamente corretto”. [...] ”Il senso della propria responsabilità è qualcosa che il critico dovrebbe avere chiaro e presente a se stesso fin dalla mattina presto, appena sveglio. Anche se mi è capitato di scrivere libri di narrativa, so di essere un critico, non uno scrittore. Di certo non un creatore. Il creatore non ha bisogno del critico. [...] quando scherzo su Shakespeare, dicendo che siamo nati lo stesso giorno, al di là dell’umorismo, so bene qual è la differenza tra me e lui: Steiner ha bisogno di Shakespeare, Shakespeare non ha bisogno di Steiner. una questione di elementare umiltà o anche soltanto di senso delle proporzioni. Quando Jacques Derrida affermava che anche il più grande testo è soltanto un ”pretesto” (per una decostruzione, un commento, eccetera), proponeva una vera e propria oscenità. L’opera di genio ha invece un valore in sé, e l’autore, il creatore, ha un privilegio che è solo suo: parlare a persone che non sono ancora nate, a individui che magari nasceranno millenni dopo [...] Al centro della mia riflessione c’è proprio questa domanda: è possibile creare la grande arte senza Dio? Il nostro tempo sembra poco disposto verso l’assolutezza dei valori religiosi. Eppure non possiamo creare nulla di bello, nulla di grande, se non prendiamo in considerazione quanto meno la possibilità della religione e del sacro. L’artista può creare soltanto per analogia con la creazione divina [...] Il critico dovrebbe essere una sorta di ”netturbino’ della letteratura. Il suo compito deve consistere innanzitutto nel fare piazza pulita delle cose inutili che ci circondano, della mole di volumi e di pagine insulse che vengono stampate ogni giorno. Il postmoderno, con la sua estetica citazionistica e combinatoria, tende a porre tutto sullo stesso piano. Ma Harry Potter e l’Iliade non sono la stessa cosa [...] Dobbiamo vivere di passione, anche come lettori, e non leggere in base a fredde graduatorie. Quando mi è stato chiesto di stilare un mio ”canone’ di autori italiani dell’ultimo Novecento, ho fatto due nomi che forse sono poco noti ai più, ma ai quali personalmente tengo moltissimo: Stefano D’Arrigo per Horcynus Orca e Salvatore Satta per Il giorno del giudizio [...] La vera cultura oggi, o forse da sempre, è quella scientifica. Senza matematica e geometria non si può comprendere il mondo. Quando mi è capitato di parlare con alcuni premi Nobel in discipline come la medicina o l’ingegneria genetica, ho percepito chiaramente il senso della mia inferiorità di uomo di lettere” [...]» (Roberto Carnero, ”Avvenire” 28/11/2004). «Fu su consiglio di un banchiere, Paul Reynaud, che la famiglia Steiner si trasferì negli Stati Uniti nel 1940. Pochi mesi dopo Reynaud avrebbe trattato direttamente con Hitler. ”Lasciammo sani e salvi la Francia, dov’ero nato e cresciuto. Non mi toccò essere là quando si fece l’appello. Io non stavo nella pubblica piazza con gli altri bambini, quelli con cui ero cresciuto. Non vidi mio padre e mia madre scomparire quando le porte del convoglio ferroviario venivano spalancate. Ma in un altro senso sono un sopravvissuto”. George Steiner non immaginava che quarant’anni dopo i collezionisti avrebbero cercato le prime edizioni delle sue opere giovanili nella Gotham Book Mart della 47 strada a New York, un luogo mitico che a tutto sopravvive, le pareti vecchiotte con le fotografie di Auden e Faulkner. O che in piena Guerra Fredda sarebbe stato uno dei pochi studiosi ammessi a Praga per un ciclo di lezioni. Di giorno commentava i realisti, di notte una folla lo aspettava per sentirlo parlare di Kafka. La formula che gli calza meglio è quella di ”ateo pio”, usata da Norman Finkelstein [...] Joschka Fischer lo considera ”un maestro della parola e uno dei pochi uomini di cultura universale del nostro tempo”. Il marxista Sebastiano Timpanaro ne parlava come di ”un mistificatore tardo borghese”. Erede di una tradizione di esegesi moralistica, Steiner è uno straordinario raconteur e critico engagé. A lui piace ”anarchico platonico”. Secondo Antony Byatt è ”l’ultimo uomo del Rinascimento” che ha traghettato la cultura inglese dal provincialismo al cosmopolitismo. [...] I discorsi di Hitler hanno punteggiato la sua infanzia. Sua madre si chinava sulla radio, cercando di sentire. Erano a Parigi, dove Steiner nacque nel 1929. Uno dei medici presenti alla sua nascita difficile tornò in Louisiana per assassinare Huey Long. La storia era sempre presente. Parigi, XVI arrondissement, prima Avenue Paul- Daumer, poi Rue de la Pompe, infanzia privilegiata, protetta, una casa piena di libri, in salotto musici invitati per l’occasione eseguivano recital di Lieder. Una madre viennese, un padre boemo, un milieu colto fedele al Deutschum da cui ha ereditato la capacità di tenere conferenze in quattro lingue. ”Ogni volta è una grande vacanza dell’anima”. Un ambiente imbevuto di agnosticismo messianico e giudaismo della speranza secolare. Un filologo in fuga dalla persecuzione, che, così lo ricorda, ”emanava un odore di sapone concentrato e di tristezza”, gli insegna greco e latino, ”una minuscola signora scozzese veniva per leggere con me Shakespeare”. Suo padre sta parlando con James Joyce in salotto. Steiner entra di colpo e si trova ai suoi piedi. ”Ancora oggi [...]vedo quel bianco splendente e quel personagggio esile che non finiva più”. Figura storica del New Yorker, Steiner ha insegnato a Princeton, Stanford, Chicago, Cambridge, Oxford e Ginevra. Ad Harvard ha rilevato la cattedra di Robert Frost e Igor Stravinskij. ”Non mi sono mai considerato come un critico letterario, quanto un critico della cultura in generale. Se Walter Benjamin fosse vissuto più a lungo, la mia opera non sarebbe stata necessaria”. Le sue strade sono tracciate dall’asfalto e non dall’erba. Un Talmud secolare, questo è il suo ideale, l’urbanità educata dello Swann di Proust. Sceglie il liceo francese di New York, Lévi-Strauss e De Gaulle sono di casa, entra ”una signora dall’aspetto severo, con una spilla sul bavero, si chiamava de Beauvoir”. Un grande rabbino lo prepara al Bar Mitsva: ”Per mio padre una cerimonia simile voleva dire: Chi sei? E, nel secolo di Hitler, mi ha detto: ”Tu appartieni a un club che non si abbandona mai, Al contrario, lo si dichiara’”. Alla fine del 1944 Steiner sussurra alla compagna di banco della ”soluzione finale”. Lei gli salta addosso e prende a urlare. Suo padre capisce che deve studiare inglese. ”Mi assumo la grande responsabilità di precluderti l’Académie française”. Nel 1947 si iscrive all’Università di Chicago. Leo Strauss lo introduce a Platone. Ed è da lui che sente pronunciare quel nome: ”Il grande Strauss entra in aula e si lascia sfuggire questa frase ancora nelle mie orecchie dopo tanti anni: ”In questo seminario non vi sarà, signori e signore, alcuna menzione di Heidegger... assolutamente incomparabile’”. Ricorda ciò che gli disse Hans Gadamer: ”Heidegger era il più grande dei pensatori e il più piccolo degli uomini”. Sulfureo, scandaloso, laconico, sardonico, apocalittico e polimorfo per Steiner non c’è ecclesia che non valga la pena di abbandonare, ”un giorno ogni sinagoga scomunicherà il suo Spinoza”. La storia è solo una ”una sabba di streghe” e l’uomo ”un esiliato agli incroci dove il mistero della sua condizione viene messo a nudo ed esposto a intercessioni ambigue di minaccia e di grazia. Dio getta la sua ombra su di noi”. Amico di Szondi e Koestler, legge i testi sacri come fossero profani, da Karl Kraus ha ereditato l’ossessione per la crisi del linguaggio. Peggio dell’ateismo è l’agnosticismo, ”la chiesa ufficiale della modernità”. Con Dio ha un dialogo da bookkeeper, ne tiene la contabilità. ”Sospetto che mio padre fosse ateo o, almeno, molto voltairiano. Mia madre, come molte grandi dame viennesi, credo, avesse a volte conversazioni con l’Onnipotente. Ma a un livello laico e terreno”. Nel suo kulturpessimismus arriva a ribaltare la mistica ebraica fino a scorgere una chance per l’eredità teologica, che in quella si dilapida. Politica e metafisica, mito e modernità si mescolano in una speculazione stravagante. A Chicago un classicista cartesiano scende da Yale per insegnare greco antico a lui, a un sostenitore di Vichy che sarebbe diventato un pittore alla moda, e a un anarchico belga. Un giorno quell’insegnante gli tira in faccia un gesso quando Steiner fraintende un passo di ”quello sciagurato oratore ateniese, Andocide”. Mentre un pedagogo stressato gli parla di Paul Eluard, lui è intento a fissare una studentessa ”di origine russa, con i capelli corvini, aveva una bellezza inafferrabile, intensificata da un vago disprezzo, in particolare verso la mia venerazione ebete”. un quindicenne che legge Racine, si innamora di una nevrotica fino ai polpastrelli macchiati di nicotina. ”Solo un Philip Roth potrebbe tradurre in parole l’atmosfera elettrica, l’incandescenza del quotidiano a Chicago verso la fine degli anni Quaranta”, il jazz, la musica leggera, il commercio e le tensioni razziali. ”Pour la dernière fois, adieu, Seigneur (Racine) mi offrì la prima e durevole intuizione della morte. Siamo monadi perseguitate dal desiderio di comunione”. Giovanissimo accetta di fare il difensore d’ufficio ad Allen Tate in un’accusa di antisemitismo, scatenatasi quando il premio Bollingen per la poesia fu assegnato da Tate, e da T.S. Eliot, a Ezra Pound. A Chicago c’era una sorta di ”lucentezza speciale nell’aria gelida”, le notti trascorse in party densi di fumo e politica, lungo la riva del lago con il ”rimbombo particolare causato dal traffico della città insonne”. La sinistra populista di Henry Wallace intonava malinoniche ballate della Catalogna. Perde la verginità in un bordello di Cicero, Illinois. ”Fottere non ti ammazzerà”, dice il compagno di stanza. ”Questa inverosimile gentilezza, la premura in circostanze esteriormente così luride, mi accompagna ancora oggi come una benedizione”. Fermi gli spiega la fisica delle particelle. Nel 1961 il ritorno in Inghilterra, vuole onorare la tragica convinzione del padre per cui se il figlio avesse continuato a vivere in America ”Hitler avrebbe vinto”. Conosce la moglie Zara Shakow, di origini lituane, nel periodo trascorso all’Economist, ”una scuola formidabile di stile e precisione”, pagato un tanto a pezzo. Zara era al Foreign Office. Non si può immaginare nessuno più diverso di lui rispetto agli accademici tradizionali, non gli è mai importato avere allievi ed epigoni, ha soltanto tracciato dei ”solchi nelle contrade del pensiero”. Nemico della decostruzione e del postmoderno, è fuori luogo tra i chierici di mercato e i poeti che vivono nei campus. ”Sono ossessionato dalla possibilità che l’apparizione in mezzo a noi mammiferi di un Platone, un Gauss o un Mozart giustifichi, redima, la specie che progettò Auschwitz”. L’alta cultura è stata di ornamento alla barbarie: ”Il sadismo scendeva nelle vie uscendo dai teatri e dai musei. Nessuna tela si staccò dalle pareti del museo quando i macellai vi passarono davanti con reverenza, la guida in mano. Gieseking suonava Debussy in modo mirabile, mentre si sentivano le grida di quelli che passavano per andare a Dachau. L’emblema della nostra epoca è la preservazione di un boschetto caro a Goethe a Buchenwald. Belzen non è indifferente alla scrittura”. A Weimar, Hitler fece costruire Buchenwald vicino all’Elephant, l’albergo di Mann e Goethe. Un cimitero, lungo una strada dove riposano molti soldati tedeschi caduti durante la Seconda guerra mondiale, confina con il giardino di Goethe un cancello arrugginito davanti ai vialetti calpestati da Liszt e Berlioz. ”Qui c’è riposo, non pace”. Allievo di Jacques Maritain, Steiner è uno specialista della teodicea: ”Nel giudaismo mistico esiste una formula per la quale vi è un nome di Dio nascosto. Se si rivela questo nome, se si scoprono le lettere della Kabbala, l’universo esploderà. Per me Hitler è questo nome nascosto. Il genio della retorica di Hitler è la morte del nostro linguaggio. Siamo homo sapiens post-Auschwitz. Le fotografie del mare di ossa e denti d’oro, di piedi e mani di bambini che lasciano il segno nero delle unghie sui muri del forno hanno modificato il nostro senso delle disposizioni possibili. Sulla falsa piattaforma di Treblinka, allegramente dipinta e fornita di cassette per i fiori, l’orologio dipinto indicava le tre. Sempre”. Dice che non spetta a lui perdonare, può solo descrivere ”la vaporosa, piacevole volgarità della bassa borghesia tedesca, la cenere di sigaro umida e la pacca sul sedere, alterate, per un improvviso accesso di isteria, nella furia imperlata di sudore degli assassini. Le salsicce che scoppiano, i vasi da notte fioriti, gli scaldabirra e gli uomini grassi in calzoni attillati di cuoio. Il cinismo degli omuncoli ingrassatisi col concime dei morti, tutta questa brava gente che cuoce la propria minestra di piselli su una fiamma a gas blu e che non ci pensa affatto. Quando l’uomo giusto fischia, i pastori tedeschi diventano i segugi dell’inferno”. Perchè non si sia mai riconciliato con Dio lo ha spiegato con Il processo di San Cristobal: ”A Majdanek diecimila al giorno, non sono pazzo, inimmaginabile perché innumerabile, in un angolo di Treblinka settecentomila corpi, li conterò ora, Aaron, Aaronovitch, Abilech, Abraham, conterò settecentomila nomi e tu devi ascoltare. Riusciamo a immaginare il grido di uno, la fame di due, il rogo di dieci, ma salendo oltre cento l’immaginazione non regge. Rahel, tre energumeni tornavano a casa da bagordi di reclute delle SS la legarono a gambe larghe e con un manganello... Dorfmann, collezionista di stampe del Seicento, a Buchenwald si guardava il pus colare dalle unghie strappate. Il Kaddish è come l’ombra dei lillà dopo un giorno pieno di polvere. Il nome dei bimbi non nati dalle donne squartate a Mathausen. Quando saranno pronunciati uno dietro l’altro, senza omettere una sola lettera, le sillabe formeranno il nome segreto di DIO”. Degli Stati Uniti non sopporta che si chiuda un dipartimento di greco antico il giorno in cui viene spedita la squadra di basket alle Hawaii, o che uno special sulla Shoah venga interrotto da uno spot sulle mutande. Ma ”se preferisci passare la tua vita sul divano dello psicoanalista, a riparare macchine o dedicarti alla breakdance o il piazzista di borsa, bene. L’America dice: lotta per quel Premio Nobel o per la piscina riscaldata. la prima nazione a incoraggiare gli esseri comuni, fallibili e impauriti, a sentirsi a loro agio nella propria pelle, l’unica comunità che si sforza di rendere la terra un filino migliore e più speranzosa di quanto l’abbia trovata. La speranza dei conquistatori si è forse trasformata in Coca-Cola. Ma frizza. In America, i genitori ebrei aguzzano l’orecchio di notte per sentire i propri figli; ma è per accertarsi che abbiano rimesso l’auto in garage, non perché fuori c’è una folla”. A Zurigo ha vissuto con Gershom Scholem, ne invidiava la conoscenza dell’ebraico. Divisi dal sionismo, Scholem entusiasta, Steiner scettico. La sua posizione su Israele come ”miracolo triste” gli ha procurato critiche e scomuniche. ” un ebreo che dirige la prima del Parsifal! Le sovvenzioni per Wagner sono di origine ebrea. Pare che a una grande rappresentazione del Tannhäuser, all’Opera di Vienna, Hitler si trovasse nel loggione. In platea c’era Herzl, il fondatore del sionismo. Herzl dice nelle sue Memorie: ” ascoltando la grande marcia del Tannhäuser che ho avuto la visione di Israele’”. Quando va a Gerusalemme è fra le mura di Mishkenot Shana’nim, quelle di Chagall e Richler. ”Percosso in Argentina o deriso a Kiev, il bambino ebreo sa che c’è un angolo di terra dove lui è padrone, dove il fucile è il suo. Ma Israele ha barattato la casa del Libro con le alture del Golan, dove un tempo tuonava Geremia sorgono oggi topless bar, non c’è da stupirsi se alcuni preferiscono stare al freddo. Le bambole in soffitta non erano le nostre; i fantasmi sembrano presi a noleggio. Marx, Freud ed Einstein hanno concluso le loro vite in esilio”. Esiste solo la patria scritta, ”nella sua immanenza condannata, nel suo tentativo di fissare il testo in uno spazio materiale e architettonico, il tempio di Davide e Salomone era forse un erratum, un fraintendimento della nobiltà trascendente del testo”. Una voce gli dice di andare, ”ma siamo un popolo affascinato dalla bufera stessa del nostro destino e talvolta mi dico che sarebbe una bella barba la venuta del Messia. Che noia se non vi fosse più Storia”. Anche il sionismo del padre aveva la tempra morale di chi sapeva fin dall’inizio che non avrebbe mai compiuto l’aliah. Israele rimane sempre all’orizzonte, ma invece di prendere l’Exodus, Steiner è salito su una ”barca con un candelabro a sette braccia alla prua che si avvicina a Gerusalemme”. Racconta che per il più grande lettore di Talmud, il Rashì, quando chiede la strada un ebreo deve rimanere sordo alla risposta. Hegel diceva che ”l’Onnipotente un giorno va dall’ebreo: La scelta sta a te, la salvezza eterna o il giornale del mattino. E l’ebreo sceglie il giornale del mattino”. Lo hanno chiamato a insegnare in Cina, Sudafrica e Giappone. ”Arrivo a Pechino come professore invitato e per cinque minuti ho una fifa tremenda: la macchina da scrivere aveva pochissimi caratteri, l’odore era inenarrabile. Mi sono detto: ”Che cosa sei venuto a fare in questa galera?’. Entra uno studente e mi domanda quale libro deve prendere per preparare il seminario: avevo dimenticato dov’ero! La patria è là dove ti lasciano lavorare”. Dovunque va, cerca il genius loci, ”la gobba del Leviatano di Itaca nella prima luce dell’alba, il tramonto incendiario che trasforma le dune del Negev in rame, la fragranza di zolfo e sale nella tundra islandese”. E New York, la 47esima, le botteghe degli orafi, il fruscio della carta velina sul palmo della mano all’acquisto degli anelli di fidanzamento, lo scambio di favori, crediti e chiacchiere, il ronzio da arnia delle voci che fa vibrare l’aria, ebraico, yiddish, polacco, russo, ucraino e spruzzi pepati dell’americano di Manhattan. Ama andare a Gerona, visitare il Seu, la basilica- fortezza che custodisce il sepolcro della contessa Ermessenda: ”Scolpito nell’alabastro, il volto è quello di una solennità benvenuta di riposo. E’ dall’interno della pietra scolpita che balugina un segreto luminoso, un accomiatarsi riluttante. La bellezza assoluta è ospite della morte”. Gli piace definirsi ”luftemensch”, il termine hitleriano per coloro che passavano per il camino. ”Per i nazisti significava ”uomo da niente’, per noi ”uomo del vento’. L’uomo del vento. E’ bellissimo il vento, il vento gonfia. ”Issiamo la vela, bisogna tentare di vivere’, dice Valery in un verso che potrebbe essere uno degli emblemi di un certo giudaismo. Non è necessario che un uomo sia sepolto in Israele. Highgate o Golders Green o il vento vanno benissimo”. Ha molti rimpianti. Non aver imparato l’ebraico, rifiutato l’Lsd (’un viaggio che non ho intrapreso”) e non aver acquistato un Ben Nicholson con il suo primo salario a Londra. Il suo destino è quello dei provocatori, trovarsi di fronte, come epitaffio della speranza, un cartello che vide esposto nella campagna dell’Ohio al posto del solito ”venduto”: ”Spiacenti, troppo tardi”» (Giulio Meotti, ”Il Foglio” 19/11/2005).