Varie, 24 novembre 2004
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THUGWANE Josiah Bethal (Sudafrica) 22 aprile 1971. Maratoneta. Medaglia d’Oro alle Olimpiadi di Atlanta • «Dal 4 agosto 1996, Thugwane è uno dei personaggi più famosi del suo Paese
THUGWANE Josiah Bethal (Sudafrica) 22 aprile 1971. Maratoneta. Medaglia d’Oro alle Olimpiadi di Atlanta • «Dal 4 agosto 1996, Thugwane è uno dei personaggi più famosi del suo Paese. Quel giorno, nella gara che chiudeva il programma dell’Olimpiade del centenario, il piccolo maratoneta di Witbank, cittadina mineraria a 200 chilometri a nord-est di Johannesburg, battendo in volata il sudcoreano Lee Bong-ju [...] diventava il primo atleta nero sudafricano a conquistare un oro olimpico. ”Questa medaglia – disse Josiah – è per tutti i miei connazionali, ma soprattutto per il mio presidente, Nelson Mandela. Grazie a lui l’apartheid è stata smantellata, finalmente viviamo nella libertà”. Il suo fu un trionfo inaspettato, da nessuno pronosticato. Del resto Josiah non vantava credenziali di rilievo. Si presentava con un anonimo 2h11’46’’ di primato personale, siglato in febbraio conquistando il titolo nazionale, quattro mesi dopo essersi aggiudicato la maratona di Honolulu. E non bastava certo il quinto posto ai Mondiali di mezza maratona per inserirlo nel novero dei favoriti per l’oro olimpico. Proprio ai campionati sudafricani, vinti anche nel ”93, aveva esordito in maratona a soli 19 anni, classificandosi 36mo in 2h23’08’’. Alla prima gara podistica lo portò, diciassettenne, un amico. E il premio vinto al traguardo (50 rand, che al cambio dell’epoca equivalevano a 60mila lire italiane) lo convinse a riporre in un cassetto i sogni di diventare calciatore: ma forse, con quel fisico da peso piuma (1 metro e 58 per 45 kg) mai avrebbe sfondato con un pallone tra i piedi. Impiegò qualche anno per ottenere risultati degni di nota, ma riuscì pian piano a portare qualche soldo nella sua famiglia di povere origini. Josiah trovò anche lavoro in una miniera di carbone: a seconda delle esigenze, faceva un po’ il guardiano, un po’ il centralinista. E l’azienda gli concedeva i permessi per potersi allenare. La svolta gliela dette Jacques Malan, il tecnico di altri due grandi maratoneti sudafricani, Gert Thys e Laurence Peu, che predisse per lui un grande futuro. E ad Atlanta la premonizione di Malan si avverò. Cinque mesi prima del trionfo olimpico, Josiah rischiò peraltro di morire. Venne infatti sequestrato mentre si era fermato per dare un passaggio a un amico con l’automobile che si era appena regalato per festeggiare la convocazione per i Giochi. Quattro uomini armati di pistole gli rubarono l’auto e lo rapirono. Josiah riuscì a gettarsi dall’auto in corsa, ma i malviventi gli spararono prima di fuggire. Un proiettile lo colpì e ancora oggi Thugwane porta i segni di quel drammatico episodio: una cicatrice sulla guancia e una sorta di feritoia tra i denti, oltre a problemi alla schiena procurati dalla caduta dopo la fuga dall’auto. Al ritorno da Atlanta, la sua vita fu letteralmente stravolta, tra interviste, premiazioni, feste, ricevimenti. E di nuovo Josiah venne preso di mira da bande criminali: ormai ricco e famoso, diventò facile bersaglio per i malviventi. Ricevette minacce di morte, tentarono una seconda volta di rapirlo. E un giorno la moglie trovò alcune teste di scimmia conficcate nella staccionata di casa. Josiah, con la moglie e i quattro figli, fu costretto a cambiare città (ora vive a Johannesburg) e ad allenarsi di nascosto. Ma non mollò. Nonostante la fama e la nuova ricchezza, conservò l’umiltà di sempre. E continuò ad allenarsi duramente per dimostrare a tutti che l’oro di Atlanta non era stato casuale. Lo fece subito: terzo a Londra ”97 in 2h08’06’’, poi primo a Fukuoka in 2h07’28’’, il suo tempo migliore. Dopo una stagione segnata dagli infortuni, si rivide nel 2000: ottavo a Londra e sesto a New York, subito dopo il ritiro ai Giochi di Sydney. Nel frattempo, però, aveva perso il suo mentore, Jacques Malan, morto di cancro, e questa tragedia lo ha segnato profondamente. [...] Nel 2001 ha [...] vinto a Nagano. [...]» (Paolo Marabini, ”La Gazzetta dello Sport” 24/11/2004).