Maurizio Bettini e Guido Rebecchini, La Stampa 22/11/2004, pag. 28., 22 novembre 2004
[Teoria del collezionismo] A parere di Seneca, chi ama oltre misura gli oggetti rari e preziosi - il collezionista, potremmo dire - è semplicemente un malato
[Teoria del collezionismo] A parere di Seneca, chi ama oltre misura gli oggetti rari e preziosi - il collezionista, potremmo dire - è semplicemente un malato. Egli «sente la mancanza di argento famoso per le firme di antichi cesellatori, di bronzo fatto prezioso per la follia di pochi» ma «mai sazierà un animo insaziabile»; la sua «non è sete, ma malattia». Da simili considerazioni si è sviluppata una tenace tradizione critica nei confronti dei collezionisti. Ancora oggi, in effetti, nel linguaggio comune il termine collezionismo evoca morbosi desideri di possesso e furti su commissione: basti pensare che tutti i film nel cui titolo compare la parola ’collezionista’ sono dedicati ad atroci vicende di serial killers. I collezionisti sono dunque casi psicologici. Nel romanzo Tutti i nomi, José Saramago traccia un identikit indimenticabile di tali personaggi e ne spiega il comportamento con «qualcosa che potremmo definire angoscia metafisica» e con un irrefrenabile desiderio di mettere ordine nel caos dell’universo. Tali pulsioni aiutano a comprendere un fenomeno le cui dimensioni non potranno sfuggire a chi, recandosi in edicola, ponga attenzione all’incredibile proliferare di «autentici pezzi da collezione» offerti al passante. Al di là dei risvolti psicologici, la fortuna di questi oggetti, resi speciali dalla loro presunta rarità e preziosità, richiede una spiegazione che non si limiti all’aspetto psicologico della questione. A fronte di tanta paccottiglia, vien da chiedersi, cosa è, veramente, un oggetto da collezione? e quale la sua funzione? Per rispondere a queste domande è necessario passare a un livello semiotico e antropologico. E’ merito di Krzysztof Pomian aver indirizzato in questo senso la discussione sul collezionismo. Collezionare oggetti, secondo Pomian, corrisponde alla creazione di un rapporto fra il mondo visibile e il mondo invisibile, ovvero tra la realtà e una dimensione astorica, ideale ed eterna; ad esempio, la pagaia che l’esquimese usava nel suo kayak, funge da «semioforo» (portatore di significato) nel museo etnografico, in quanto mette in contatto il visitatore con l’invisibile mondo esquimese. Il valore degli oggetti da collezione non è dunque stabilito in base alla loro funzione strumentale, ma al significato che sono in grado di veicolare. Questa lettura del fenomeno si presta a essere sviluppata introducendo nuovi criteri di valutazione degli oggetti da collezione. Forse il più importante tra questi è costituito dall’autenticità. Il falso, infatti, anche uno solo, guasta la collezione, deve essere individuato ed eliminato. Certo posso anche fare una collezione di falsi, come nel caso della mostra «Falsi d’autore» attualmente in corso a Siena, ma anche in questo caso quello dell’autenticità resta paradossalmente il criterio dominante: i pezzi presentati devono infatti essere tutti «autentici falsi». Un oggetto, per essere collezionato, deve essere veramente «lui». Magari banale, quotidiano, kitsch - però autentico, non contraffatto. Questo ha probabilmente a che fare con la felice idea secondo cui la collezione deve contenere oggetti che rendano presente l’invisibile. Se il pezzo non è autentico, la seduta spiritica fallisce, l’invisibile non può manifestarsi. Se questi sono i parametri in cui muoversi sarà possibile considerare «collezioni» anche nuove categorie di «semiofori»: dalle asce rinvenute nelle sepolture preistoriche, ai tesori della tomba di Tutankamon, ad altri oggetti tipici del mondo romano come, ad esempio, le imagines maiorum e gli dei Penates. Le prime erano maschere in cera che riproducevano il volto degli aristocratici defunti. Le famiglie gentilizie possedevano una grande quantità di queste maschere e ad ogni funerale esse venivano addirittura indossate da appositi figuranti. Possiamo dire che l’insieme di queste maschere costituiva una collezione? In buona sostanza sì: le imagines maiorum garantivano infatti la possibilità di mettere in contatto il visibile con l’invisibile ed erano per loro intima natura autentiche, in quanto recavano l’impronta diretta del defunto. I Penates invece erano divinità familiari che si tramandavano da una generazione all’altra. Celebri sono quelli che Enea, nell’Eneide di Virgilio, porta in Italia da Troia, simbolo della sua perdurante identità nella nuova patria italiana - o quelli che il generale Maximus esibisce nel film Il gladiatore... Almeno nei termini di Pomian, possiamo considerare anche i Penates come una collezione. Essi consentivano infatti di mettere in contatto il visibile con l’invisibile (gli dei), e soprattutto contribuivano fortemente a definire la «identità» del loro possessore. Con quest’ultima considerazione, però, ci siamo già spostati dal versante semiologico a quello antropologico. Non c’è dubbio, infatti, che il possesso di una collezione produca un forte effetto di identità e di prestigio. Offrendosi allo sguardo di uno spettatore, la collezione attiva un processo che contribuisce alla costruzione, e talvolta all’invenzione di sana pianta, dell’identità della persona o del gruppo responsabile della formazione e conservazione della collezione stessa. Tanto le imagines maiorum che gli dei Penates, quanto collezioni di pipe, di modellini, di bottiglie di vino o di opere d’arte contribuiscono a creare l’identità del collezionista. Come le immagini degli antenati sono garanzia dell’antichità della famiglia e della sua nobiltà, così le pipe ci rendono partecipi dell’attitudine meditativa del loro possessore, i modellini di un aspetto infantile del suo carattere, le bottiglie del suo lato gaudente e le opere d’arte del suo gusto raffinato (o meno) e della sua ricchezza. E se poi le opere d’arte sono raccolte in un museo pubblico, questo contribuirà a identificare come colta e raffinata un’intera comunità, e non un singolo possessore. Nel loro insieme, dunque, le collezioni rappresentano un importante elemento d’identità mediante il quale è possibile affermare se stessi e riconoscersi in un gruppo, sia esso familiare, sociale, culturale o religioso. E’ soltanto ragionando su queste premesse che è possibile capire cosa radichi così fortemente nel tessuto della cultura quegli oggetti così inutili (quasi sempre) eppure così preziosi (sempre) che sono i «pezzi» di una collezione.