Fabio Poletti, La Stampa 22/11/2004, pag. 13., 22 novembre 2004
[Storia delle radio libere] Dopo «Radio Bologna», nell’etere italiano nulla sarebbe più stato come prima
[Storia delle radio libere] Dopo «Radio Bologna», nell’etere italiano nulla sarebbe più stato come prima. Basta con i fili delle antenne che mulinavano nel vuoto, per acchiappare il segnale di «Radio Merkure» che trasmetteva da una nave al largo di Copenaghen o «Radio Veronica» dal mare di Amburgo, «libere di trasmettere tutto il rock’n roll del mondo». E basta con il tocco chirurgico sulla manopola delle frequenze, per non perdere la sintonia di «Radio Montecarlo», «Radio Luxembourg» e tutte le emittenti che oltre confine cavalcavano la rivoluzione rock. Anche in Italia, da quel giorno, crescono antenne come funghi. Serve un amplificatore magari a valvole da pochi watt, un’antenna da cb riadattata, uno sgabuzzino e tanta voglia di sfogarsi. Il primo gennaio 1975 inizia le trasmissioni «Radio Parma». Tre mesi dopo i fratelli Borra, due giovanissimi radioamatori milanesi, aprono i microfoni di «Radio Milano International», la prima emittente commerciale, solo musica e dediche. Alla fine dell’anno le radio private che trasmettono in Italia sono 150. Due anni dopo, grazie a una sentenza della Corte costituzionale che ne riconosce la legittimità in ambito locale, sono diventate 1500. Nel ’79 sono già 2600. Lo aveva predetto Marshall Mc Luhan quindici anni prima: «La radio dimostra la sua vitalità quando si rivolge alle necessità personali dell’individuo e lo accompagna in camera da letto, in bagno, in cucina ed ora anche in tasca». E lo cantava pure Eugenio Finardi: «Amo la radio perchè arriva tra la gente, entra nelle case e ci parla direttamente. E se una radio è libera, ma libera veramente, piace anche di più, perchè libera la mente». Gli inizi sono quelli che sono. Ricorda Paolo Hutter, una delle prime voci di «Canale 96» e poi di «Radio Popolare», anno 1975: «La prima sede di ”Canale 96” era in un appartamento di via Mac Mahon. La redazione giornalistica era in via Bonghi, in Ticinese. Capitava di attraversare la città in filobus o in motorino per trasmettere i notiziari. L’appartamento era talmente piccolo, che se bussava il postino alla porta, andava direttamente in onda». Una cosa impensabile per la Rai di quegli anni, ingessata nella gestione Bernabei. Gianni Boncompagni, uno dei protagonisti dell’etere di Stato con trasmissioni come «Bandiera Gialla» e «Alto gradimento», la Rai di allora se la ricorda bene: «Chi telefonava veniva prima registrato e andava in onda in differita, bastavano dieci secondi. Facevano paura le incursioni politiche. Su certe parole poi c’era il veto, non si poteva nemmeno dire inguine. Era una situazione sovietica. Inevitabile che le radio libere bucassero l’etere. Però all’inizio non andavano oltre il pianerottolo». Piero Scaramucci, giornalista alla Rai di Milano, raccoglie l’invito di un po’ di forze politiche e sindacali e fonda «Radio Popolare», anno 1975: «Per alcuni la radio era solo l’evoluzione dei volantini ciclostilati. Ma si capisce che era molto di più. Si dava a tutti la possibilità di intervenire in diretta, senza filtro». Nascono così i microfoni aperti, l’idea vincente di tutte le radio libere. Quelle commerciali che mandavano in onda dediche e sospiri, a Roma a «Radio Luna» furoreggia nella notte una ancora sconosciuta Ilona Staller. E quelle politiche che seguivano assemblee, manifestazioni e se capitava pure gli scontri. Come a Bologna nel marzo ’77 quando viene ucciso dalla polizia lo studente Francesco Lo Russo e «Radio Alice» fa sentire tutto in diretta. Come a Milano a dicembre, quando i Circoli giovanili cercano di dare l’assalto alla Prima della Scala e i manifestanti si infilano nelle cabine per telefonare a «Radio popolare» quello che vedono. Il bello della diretta aveva però un lato oscuro. A «Radio Alice», l’emittente del Movimento di quegli anni a Bologna, una specie di collettivo informale dove chiunque poteva andare al microfono e dire quello che gli passava per la testa, arrivavano anche telefonate impossibili. Testuale: «Scusa, puoi mettere i Genesis, quel pezzo dell’album che ha la copertina blu, il terzo della seconda facciata, quello che fa za-da-za-da-daaaa-babum. Ma dai, come non capisci?». O quest’altra: «Scusate compagni, a che ora è l’assemblea al circolo Cabral?». Piero Scaramucci dice che alla fine andavano bene anche telefonate di quel tipo: «Piuttosto di una radio di Stato di stampo vaticano, dove tutto era ingessato e lottizzato, erano meglio anche le parolacce dette all’improvviso. Era pure quella un’occasione per discutere». Di fronte a tanta improvvisazione arrivano i primi segnali di «professionismo». A volte esagerato. A «Canale 96» va in onda la trasmissione «Semiotica e psicanalisi» condotta da una pattuglia di psichiatri milanesi. A «Radio città futura» di Roma le occupazioni delle case sono seguite sul campo da una pattuglia di inviati, con il registratore non perdono un soffio di quello che accade. A «Radio Gamma» di Milano dell’editore Bruno Riffeser non ci sono dipendenti, solo macchine che curano la messa in onda. All’inizio non c’è niente da trasmettere e allora va bene pure il quinto canale della filodiffusione rilanciato tale e quale. A Padova Toni Negri è uno dei protagonisti di «Radio Sherwood», la prima radio dell’Autonomia Operaia, la prima a finire nell’inchiesta 7 Aprile del magistrato Catalanotti. Un frullato di segnali che avrebbe cambiato per sempre il mondo di comunicare. Scaramucci ne è sicuro: «Le radio libere hanno rotto una cappa culturale. Oggi radio o televisioni senza dirette, sarebbero impensabili».