Giuseppe Marcenaro, ttL 20/11/2004, pag. 4., 20 novembre 2004
Si giudicava bruttissima e odiava farsi fotografare. L’unico scatto che la ritrae, elegantissima e eterea, è di Avedon
Si giudicava bruttissima e odiava farsi fotografare. L’unico scatto che la ritrae, elegantissima e eterea, è di Avedon. Donna anfora, indossava abiti di chiccheria astratta. Miopissima, da non riconoscere le persone per strada, detestava gli occhiali sostituiti all’estremo con montature stravaganti tempestate di strass e in forma di farfalla. Vedeva invece, e perfettamente, le eccentricità che raccontava nei suoi articoli, sovrani pastiches sarcastici, zeppi di raffinati echi letterari, degni d’essere accolti nell’Antologia del narcisismo egotista. Le italiane della classe rampante dell’età del boom impararono da lei a depilarsi, deodorarsi, curarsi. Esordì firmando Oriane, il nome della duchessa dei Guermantes dell’adorato Proust. Figlia di un generale di Corpo d’Armata, che considerava disdicevole far correre il proprio nome per i giornali, si chiamava in realtà Maria Rossi, una delle migliaia di Maria Rossi di cui è inzeppato il mondo. Diventò la sbarazzina Mariù, ma non bastava a una che conosceva tutti e a tutti dava consigli stravaganti, al corrente delle geografie del cuore di tutti. Crisalide mutata in farfalla si chiamò anche Madame d’O., Cecil Wyndham Alighieri, Geraldine Tron, Clara Radjanny von Skevitch, Contessa Clara, nomi di penna con cui firmava articoli su «Omnibus», «Settimana Incom», «Harper’s Bazar», «Corriere delle Sera». La sua fortuna fu cadere nelle grinfie di Longanesi che le modellò il carattere, mutandola in personaggio. La stoffa già c’era. lei medesima a raccontarlo in una rara scheggia autobiografica. Avvenne nel 1938. Maria Rossi aveva già subito una delle tante mutazioni «genetiche»: si chiamava Maria del Corso. Aveva conosciuto il marito - Gaspero del Corso - al Ballo della Cavalleria all’Hotel Excelsior di Roma: «Ballammo insieme tutta la sera, parlando di Proust». Longanesi lo incontrò nel suo ufficio romano di via del Sudario. «Fu come iniziare una serie di esperimenti chimici, passando da uno stato di ebetudine ad uno stato di esaltazione, dall’avvilimento alla rabbia, dalla limpidità al disordine. Longanesi non si limitava a rewrite i miei articoli, ma me. Scoprivo di non aver mai saputo, né visto, né inteso niente». Longanesi le spiegò la politica, la letteratura, l’arredamento, la religione, la cucina, la società, sotto l’apparente disciplina del giornalismo. La indusse a essere più dry, più surreale, più crudele. Le tagliò addosso, come un abito di alta sartoria, lo stile di vita e di scrittura. «Mi inventava, collocandomi nei mie diversi ruoli e nei miei diversi pseudonimi». Longanesi mangiava i suoi collaboratori. Faceva esperimenti sulle persone. Doveva essere un incrocio tra Pigmalione e dottor Coppelio. Compiuta l’opera metteva il «cartellino» alla sua creatura. «Io non mi chiamo né Irene, né Brin, anche se così figuro in contratti, elenchi telefonici, discorsi familiari. Sono nomi inventati da Longanesi. Io sono un’invenzione di Longanesi».