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 2004  novembre 21 Domenica calendario

MAURI Fabio

MAURI Fabio Roma 1 aprile 1926, 19 maggio 2009. Pittore • «Tra i principali protagonisti della scena artistica contemporaneo, vicino ora al neo-dadaismo ora all’arte comportamentale [...] ha sperimentato e attraversato linguaggi artistici e ambienti: autore di testi teatrali (i primi Il benessere e L’isola sono del 1958) e di saggi sull’arte come Che cosa è, se è, l’ideologia nell’arte (1984); tra i fondatori di riviste, con Pasolini nel 1942-43 Il Setaccio e Officina nel ’59, Quindici (’67), La città di Riga (’76) con Boatto, Calvesi, Kounellis, Silva; docente di estetica all’Accademia dell’Aquila; direttore della sede romana della Bompiani. La guerra, insieme all’enigmaticità dell’esistenza, alla storia, alla follia del male, del razzismo, ricorre in opere e azioni come Schermi (1957-94), Ebrea (’71), Che cosa è il fascismo (’71), Intellettuale (’75), I numeri malefici (’78), Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo (’89), Il Muro Occidentale o del Pianto (’93), Muro d’Europa/La barca (’98). “La mia vita è fatta come di pences. Ci sono delle pences, poi c’è l’orlo e se ne aggiunge un’altra. Ma è abbastanza importante per capire il soggetto del mio lavoro, dagli anni settanta in poi”. Tra le pieghe dell’esistenza di questo artista c’è stato anche un profondo disagio psicologico, causato proprio dal dolore della guerra, da cui sarebbe uscito solo con l’intervento dell’elettroshock, la più controversa terapia psichiatrica. [...] “La guerra mi ha stravolto. Ha ribaltato la mia infanzia e giovinezza felice in una famiglia allegra e intelligente, con un padre e una madre formidabili e quattro fratelli, due più grandi, Silvana e Ornella, e due più piccoli, Luciano e Achille, con molti amici fra cui Pasolini. La guerra investe: è una maschera di ferro che stringe la gola. L’ultimo anno fu terribile, a parte il disagio fisico - fame, freddo, paura - c’erano gli amici, uccisi. Finita la guerra sono stato molto malato psichicamente. Volevo suicidarmi, non ero più interessato a vivere. Avevo anche deciso la data, ricordo che era di venerdì. Invece, proprio io che non avevo avuto un’educazione religiosa mi convertii. Capii che c’era Dio e mi rasserenai, anche se il mio Dio fu un Dio terribile, il Dio di Abramo. Cercai di entrare in ordini religiosi, i Carmelitani scalzi o i Certosini, ma da questi conventi sono sempre uscito in barella, non reggevo quella durissima vita. Dalla depressione entrai in un tunnel di angoscia, in un’ascesi fisica e psichica terribile. Essendo diventato religioso non mi potevo neanche più suicidare. Avevo scelto consapevolmente il silenzio. Ero garbato, ubbidivo, ma non parlavo. Non parlai per un anno. In quell’anno di silenzio sono passato da una clinica a l’altra. Ho fatto 33 elettroshock: due a settimana, feci anche due volte la cura del sonno e dell’insulina. Posso affermare di essere guarito con l’aiuto dell’elettroshock, cui la modernità guarda con orrore. Come ho già asserito altre volte, la psicomania non è un delirio, è un ragionamento rigido. È come se l’individuo fosse chiuso in un tubo d’acciaio da cui vuole uscire, poiché non ama certo soffrire. Vorrebbe trovare il pertugio, la fuga, ma non ci riesce: tutti i pezzi sono avvitati tra di loro. È un rigido ragionamento, logico, morale. È anche vero che l’elettroshock somiglia alla sedia elettrica. Si sente il rumore di prova della macchinetta che ti fulmina. Ti bagnano le tempie con l’acqua, applicano i due elettrodi e ti mettono il cuscino sulle ginocchia perché puoi avere lo chock epilettico, e morderti la lingua o slogarti un braccio. Ero totalmente passivo. Ero come un cadavere - come dice Sant’Ignazio - ero destinato a morire secondo la mia mentalità. Grazie all’elettroshock si è sospeso questo circuito. Intervenendo sulla memoria si ha il vantaggio di interrompere una logica perfetta. Quindi si riconquista poco a poco il comportamento abituale della mente. Con l’’elettroshock non c’è un’interferenza nel linguaggio, ma nella relazione con cui si tengono insieme le cose, la logica. [...] Uscito dalla clinica chiesi di fare un viaggio per l’Italia, lungo gli Appennini. Con mia madre e mio padre, lui che era ateo, ma amava questo figlio addolorato, sono andato per santuari, arrivando fino da Padre Pio. Di ritorno, era il 1949, volli visitare una comunità di sciuscià vicino Civitavecchia, al Villaggio del Fanciullo. La vita di comunità fu un’esperienza nuova, per certi versi anche brutale. Fui messo in seguito a capo di una comunità di 120 ragazzi dai 12 ai 16 anni. Erano figli che avevano visto uccidere i padri, o figli di prostitute, venivano la domenica a trovarli, o figli di chi non si sapeva, abbandonati come cani nei campi. Rimasi con loro sei anni. Lì ricominciai a dipingere, insegnavo ceramica ai ragazzi, mi occupavo dei loro studi, giocavo a pallavolo, a calcio, a baseball. Un periodo felice. Scaricato del problema di me stesso, vedevo quanta miseria c’era intorno. È stato un ritorno alla vita. Se uno vuole uccidersi, desidera morire, può regalare la propria vita ad altri. Costa poco. [...] Quando tornai alla vita borghese di Milano, nel 1954, ricominciai a disegnare e dipingere. I miei referenti artistici erano Kokoschka, Nolde. A Carlo Cardazzo, proprietario con il fratello Renato, della galleria Il Cavallino di Venezia, piacque molto quello che facevo, mi organizzò subito la prima mostra personale. Ne seguirono altre. Partecipai a una collettiva a Buenos Aires insieme a Fontana, Crippa, Dova. Nel ’56 feci una mostra alla Galleria San Babila di Milano con olii su carta. Ne vendetti 52. Con i soldi guadagnati mi trasferii a Roma e sposai Adriana Asti. Fu una passione travolgente, durata circa due anni e mezzo, il matrimonio fu un disastro. A Roma trovai una solitudine totale. Portavo con me quei lavori che avevano avuto successo a Milano, ma non nella capitale. Feci la fame. Andai anche a finire, pagando qualche lira, da una vedova che aveva un gallo. La stanza era un buchetto con il letto. Quando lavavo le mie camicie ci trovavo stampate le zampe del gallo, lo guardavo, come nelle comiche di Chaplin. Insomma la desolazione e la sofferenza erano quotidiane. Avevo fame e non avevo soldi neanche per l’autobus. Facevo delle camminate pazzesche. In una di quelle passeggiate sconsolate, vidi nella vetrina di una galleria, era l’Obelisco, un libro aperto su un’immagine. Era un quadro di Burri. Un sacco con un buco, da cui usciva del rosso. In quel momento realizzai che la pittura non era più la rappresentazione di qualche cosa, ma diventava lei il qualche cosa. Cioè prendeva dentro di sé la metafisicità degli oggetti. Si riproponeva come essenza, non come narrazione. I miei lavori successivi ripartirono da questo punto. Una volta Pasolini venne a trovarmi nello studio che mi aveva prestato un pittore amico, Bruno Caruso. Dei quadri che avevo dipinto disse che ci mancava solo che entrasse in campo Topolino: sembravano cartoni animati. Non seppi rispondere. Erano quadri pre-pop. [...] Da Burri avevo capito che l’oggetto doveva essere un’essenza, una cosa in sé. Oggetti che già sono la rappresentazione di una storia di un tempo. Quanto al mio pensiero sull’arte, c’é una metafora che ho già usato: l’arte non è fatta solo di talento, è fatta di limiti materiali e personali. È come un treno che, scagliato a grande velocità su un prato, affonda, si scompone. Messo su due rotaie - sono limiti fortissimi - il treno va veloce. Una rotaia è il talento-l’intuizione, l’altra rotaia, invece, rappresenta i limiti materiali e personali: non si può più fare una cosa che si sa fare, si cerca di fare qualcosa che ancora non si conosce. Io disegnavo bene, potevo fare molti disegni, avevo un gusto fortissimo per la pittura, mi riusciva facile sperimentarne le varie tecniche. Ma rinunciai alla pittura. Sentivo che qualcuno aveva scoperto un nuovo paese. Mi ci sono avventurato. In un secondo momento ho conosciuto artisti che facevano contemporaneamente un percorso. Scarpitta, Rotella. Siamo stati fra i primi a spingerci, qui a Roma, in questa direzione. Non avevo realmente abbandonato la pittura, ne avevo semplicemente modificato l’uso sintattico e grammaticale: continuavo a lavorare sull’essenza della rappresentazione. Il significato dell’arte praticamente risiede in un pensiero. Un pensiero, come tutti i pensieri, che parte da un’esperienza, da una fenomenologia del reale osservata, criticata, scelta. È una forma di rappresentazione intorno alla volontà di ricerca e individuazione di un senso. Questo mio pensiero ruota attorno all’enigmaticità del mondo, e dell’io. Enigmaticità totale e completa in cui l’arte riesce a dare un punto di luce. È come puntare una lampadina nel buio e vedere che siamo di fronte a una pietra o un albero dove sotto c’è un fungo. Identifico queste realtà. Stanno insieme e producono, con la loro vicinanza, un terzo pensiero, che potrà essere l’esistenza intera, persino l’essere. Quindi è un rapporto in qualche modo filosofico con la fisicità del mondo. È un rapporto di produzione di pensiero attraverso la molteplicità fisica del mondo. In questo senso sono un “concettuale”. Il soggetto, se non è enigmatico, è ignoto, ed è sempre uno, il mondo. C’è differenza tra vederlo solo parzialmente noto, o vederlo essenzialmente enigmatico, come è la mia visione. Per me il mondo è del tutto non noto. Ad esempio l’infinito è un concetto che si può intuire, ma non si rappresenta dal vero come una bottiglia. L’arte per una intrinseca facoltà linguistica rende praticabile l’invisibile. Guardando La tempesta del Giorgione possiamo vedere che cos’è la complessità dell’infinito, sospesa sul mistero dell’esistenza: c’è un rudere, una donna impropriamente nuda, curiose figure arabesche, la natura, la folgore lontana, elementi distanti che l’arte unisce, e quasi spiega o fa capire. Quindi l’arte ha la facoltà di usare dissolutamente il linguaggio per tenere insieme percezioni molto distanti fra di loro. Senza dare ragione dei passaggi, accosta con quotidiana naturalezza le cose che fanno parte della struttura del soggetto, che è il mondo. Vorrei dire, della loro soluzione. L’arte dà continuamente risposte. È anche lo strumento che ci dà un uso più vasto dell’universo. [...]» (Manuela De Leonardis, “il manifesto” 20/11/2004).