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 2004  novembre 13 Sabato calendario

[Storia del tè] I fedelissimi consumatori di caffè, vino, birra, e in subordine le bevande ricavate dalla fermentazione del succo di pere e mele, stenteranno ad accettare il primato della camellia sinensis, ossia la pianta del tè, che affidabili studiosi son pronti a documentare

[Storia del tè] I fedelissimi consumatori di caffè, vino, birra, e in subordine le bevande ricavate dalla fermentazione del succo di pere e mele, stenteranno ad accettare il primato della camellia sinensis, ossia la pianta del tè, che affidabili studiosi son pronti a documentare. Ma quali che siano le preferenze personali o territoriali, non si può non rendere omaggio a un umile frutto della terra che in modo pacifico ha conquistato il pianeta, investendo botanica e medicina, economia, religioni e stili di vita. Una storia apparentemente minore riconducibile alle foreste dell’Himalaya, tra i centomila e sessantamila anni or sono, quando l’Homo sapiens, sull’esempio delle scimmie, masticava le foglie della camellia e ne riscontrava effetti prodigiosi. In che consistano questi effetti e relative implicazioni nelle varie civiltà, lo spiegano Iris e Alan Macfarlane, madre e figlio, in Oro verde, edito da Laterza. Iris, col bel racconto autobiografico strettamente legato a una piantagione di tè in India dove è vissuta per un quarto di secolo; Alan, docente di antropologia sociale al King’s College di Cambridge, nato a Shillong, in Assam, tuttora assalito dai ricordi dell’infanzia trascorsa al centro di una regione divenuta celebre proprio per la scoperta dell’arbusto salutifero. I vaghi ricordi di Alan, bimbetto intriso di orgogli colonialistici, comprendono l’odore dello «stabilimento pieno di mucchi di tè e di vecchie macchine sbuffanti», i freschi bungalow circondati da magnifici fiori, le gite ai fiumi di montagna, i campi sterminati che il padre attraversava a bordo di una jeep, le soste al Circolo, naturalmente esclusivo, per seguire le partite di tennis e di polo. Ben presto però i flash rievocativi dileguano e subentra l’indagine scientifica, a partire dalle fiabe cinesi del IV secolo a.C., dai mercanti che si arricchivano vendendo foglie di camellia sinensis nei templi, nei monasteri, giacché taoisti e buddisti si sentivano largamente attratti da quella calda infusione che sprigionava ignote energie, favoriva la meditazione e allontanava la sonnolenza. Soddisfatte le aspettative spirituali, il tè non si sottrae alle incombenze corporee. Il Canone di Yu Lu, - bibbia dei produttori e bevitori per oltre un millennio - parla di risultati sbalorditivi nella cura della «melanconia, nei dolori al cervello, nel bruciore degli occhi, nelle sofferenze delle cento giunture». Il secolo diciassettesimo, secolo aureo per la diffusione in Europa della gradevole bevanda, chiamata anche «rugiada del cielo» e «spuma di giada», si sforza di teorizzare le virtù della camellia alla luce di sperimentali reazioni chimiche e fisiche. Si diffondono protocolli e manifesti firmati da medici illustri e da proprietari di coffee house che introducono la nascita del tè nei loro locali e aggiornano le anime candide sulla lieta novella. Un membro dei Parlamento inglese, T. Povey, a gara con un rispettabile esercente, Thomas Garway, pubblica un manifesto in cui si elencano venti patologie allo sbaraglio (la lista è a pagina 73 e contempla quasi tutte le fragilità organiche lamentate da noi mortali). Non mancano i filosofi del «teismo», culto fondato sulla religione «estetica», assai caro ai seguaci dello Zen; e un autorevole scrittore giapponese, Kakuzo Okakura, dopo aver elogiato le caratteristiche del «teismo» (igiene assoluta, «geometria morale», i rapporti tra i nostri sentimenti e l’universo...), si sofferma su un’istituzione leggendaria: la Stanza del Tè, destinata a esaltare, rilassare e illeggiadrire chi vi approda. «Un momento di intensa felicità - garantisce Okakura - nel triste deserto dell’esistenza... Nessun colore disturba il tono della Stanza, nessun rumore interrompe il ritmo delle cose, nessun gesto ne altera l’armonia». Né mancano, c’è da crederlo, gli ultrà della bevanda, come il dottor Nikolas Dirx che trasforma in uno spot le sue Observationes Medicae: «Non c’è pianta comparabile alla camellia. Coloro che la usano sono esenti da malattie e raggiungono un’età estremamente longeva». I danni, diremmo oggi d’immagine, provocati da retori e parascientisti, riguardano certo l’oro verde che, al pari di ogni nuovo elisir, rinfresca le nostre illusioni; ma non scalfiscono l’imponenza del fenomeno in sé e gli enormi impatti culturali e speculativi che si sono succeduti. Proprio quelli che Alan Macfarlane analizza e severamente giudica allorché rivela l’altra faccia della luna, ovvero le umiliazioni, le violenze, le crudeltà inflitte ai milioni di esseri umani impegnati a coltivare la mitica pianta. «E’ stupefacente pensare a ciò che si nasconde dietro una tazza di questo liquido ambrato, dall’aspetto così innocuo», dichiara intristito l’antropologo. E non a caso chiama a rinforzo un guastatore di cartello, De Quincey, che annulla la «rugiada del Cielo», la «spuma di giada» e definisce il tè «acqua stregata».