Varie, 5 novembre 2004
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Primo Giancarlo
• Roma 4 novembre 1924, Civitacastellana (Roma) 27 dicembre 2005. Giocatore di basket. Poi allenatore. Anche della nazionale (1969-1979): con lui in panchina, oltre a conquistare due bronzi europei, l’Italia riuscì nelle imprese storiche di battere per la prima volta gli Usa (1970) e l’Urss (1977). Come tecnico di club, vinse con Cantù una Coppa Campioni e una Coppa Intercontinentale. Da giocatore, fu 37 volte in azzurro: con la nazionale disputò i Giochi di Londra del 1948, e gli Europei del ’47 e 49. Lanciò Dino Meneghin e Pierluigi Marzorati in nazionale. «Renzo Bariviera detto Barabba, allora due metri svelti e 21 anni [...] tranciò alla sirena l’area americana ed esalò il gancetto. La palla entrò, e fu quella, addì 21 maggio 1970, Mondiali di Lubiana, la prima volta che l’Italia del basket battè (66-64) gli Stati Uniti: i maestri, inarrivabili, e pazienza se allora, per il mondo, mandavano la decima, o undicesima squadra. Esplose in campo la festa di Meneghin e Masini, Bisson e Zanatta, Recalcati e Flaborea e issato su, a forza di braccia, si scompose pettinatura e cravatta pure Giancarlo Primo, il tecnico che li guidava. [...] Romano della classe ’24, la parabola sportiva di Primo, pur lunga e ricca, si condensava ancor oggi in quella notte magica, in cui il rampante basket italiano fece l’americano. Si stava passando dalle tute di raso ai polsini di spugna, si calzavano le Converse All Star, s’importavano tremuli filmati Nba, ma oltre questi vezzi ed usanze c’era molto di sodo, se già vinceva Coppe dei Campioni in serie l’Ignis Varese. Di quel basket in sboccio, Primo fu un caposcuola rigoroso, il teorico della difesa come sistema per rendere meno umorali e dipendenti dalle stelle, in cielo e in campo, gioco e risultati di una nazionale. Per una dozzina d’anni (e tre Olimpiadi) vice di Ettore Paratore, Primo lo rilevò dopo i Giochi ’68 in Messico aprendo un’epurazione. Via tutte le grandi firme, da Lombardi a Vittori, e dentro i giovani: ossia quanti volessero seguirlo in quel gioco di dedizione e geometrie che avrebbe poi fatto scuola. Crollò la sua prima Italia, agli Europei di Napoli ’69, e le critiche ne minarono subito il mandato. Lubiana ’70, e quel gol agli americani, fu lo scoglio superato, finchè nel ’77, agli Europei di Liegi, venne pure la prima vittoria sui sovietici, altrettanto inarrivabili. Nella bacheca di Primo rimasero poi due soli bronzi europei: un raccolto avaro, rispetto alla semina. Silurato dopo il grigio quinto posto agli Europei di Torino ’79 (e 238 gare azzurre, 160 vinte, 78 perse), Primo raccolse altro come tecnico di club: a Cantù una Coppa Campioni e un´’Intercontinentale, toccando pure Gorizia, Livorno, Roma. Ma era l’azzurro il suo fondale, la tinta d’una carriera. [...]» (Walter Fuochi, ”la Repubblica” 29/12/2005). «Difesa, difesa, difesa: il credo che introdusse nella pallacanestro questo uomo di sport che, prima di diventare la personificazione della ”svolta del basket moderno italiano”, aveva giocato nelle giovanili della Roma Calcio e poi, consigliato dal medico, era passato al nuoto. Riuscì dove nessuno era riuscito: convincere i suoi giocatori che le partite si vincevano anche difendendo e non solo cercando di fare un canestro in più della squadra avversaria. ”Ma poi mica convinsi tutti, eh. Che lotte, quanti nemici mi sono fatto! Ma sono andato avanti e qualche risultato l’ho pure ottenuto, senza mai tradire le mie idee. Dopo un po’, quando avevamo vinto qualcosa, qualche critico ammorbidì il suo giudizio negativo su di me. Ma che fatica è stata [...] Quando convocai Marzorati, a momenti mi linciarono. ’Ma questo che fa, porta i ragazzini nella Nazionale maggiore?’ dicevano. Marzorati, in due anni, divenne uno dei più grandi giocatori. E poi Meneghin. Che atleta, era il faro delle mie squadre. Tutto era costruito intorno a lui” [...] In azzurro, ha un archivio zeppo di imprese. I bronzi agli Europei di Essen e Belgrado, il quarto posto olimpico di Monaco, il quinto di Montreal e i due quarti posti mondiali a Lubiana e Manila. Risultati che lo inorgogliscono, ma ancora di più gli piace pensare ad altri aspetti di quelle imprese. ”Mai nessuno dei ragazzi che ho chiamato in Nazionale ha mai rinunciato a una convocazione. Non si può rinunciare alla maglia azzurra” [...] Ripensa a Lubiana al ’70. ”Battemmo gli Usa, canestro di Bariviera a 5 secondi dalla sirena”. [...]» (Erminio Marcucci, ”La Gazzetta dello Sport” 5/11/2004).