Varie, 29 ottobre 2004
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Konrad Klaus
• Berlino (Germania) 22 dicembre 1914, Scharbeutz (Germania) 17 agosto 2006. Politico. Parlamentare della Spd. Durante la seconda guerra mondiale, combattuta da ufficiale della Wehrmacht, partecipò all’eccidio di San Polo • «All’età di 90 anni ha dovuto rinunciare alle cariche onorarie, i residui di una gloriosa carriera politica [...] ex parlamentare della Spd, ex consigliere giuridico del leader socialdemocratico Willy Brandt, ha ricevuto brutte notizie, dall’Italia e dal suo passato. [...] La strage è quella di San Polo, Arezzo: 61 morti nello spazio di qualche chilometro e di poche ore, la mattina del 14 luglio 1944. Konrad quella mattina era ufficiale di Stato maggiore (sottotenente) del 274° Reggimento Granatieri della Wehrmacht. “Ha contribuito - si legge nell’informazione di garanzia dei pm spezzini - alla materiale realizzazione del crimine, senza necessità e senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra e anzi, nell’ambito di un’ampia operazione pianificata e condotta contro i partigiani e la locale popolazione civile”. E ancora: “Ha cagionato la morte di civili non belligeranti... donne, una delle quali incinta, in precedenza sottoposte a violenza carnale, bambini e persone anziane”. È uno dei tre ufficiali, Konrad, che quella mattina gestirono la rappresaglia seguita alla presa in ostaggio di alcuni militari tedeschi da parte dei partigiani. Furono uccise 13 persone nelle frazioni di Molin de Falchi e Pietramala, nel comune di San Polo altre 48 vittime furono costrette a scavare una fossa comune, la loro. Erano “sfollati dalla città di Arezzo”. Soltanto alcuni appartenevano “a formazioni partigiane della zona”. Negli atti della procura militare si legge: “Venivano sottoposti a violente percosse con bastoni, tubi di gomma e calci di fucile e, quindi, condotti nella vicina Villa Gigliosi, ove venivano barbaramente uccisi, in parte con colpi di fucile e di pistola alla testa, in parte facendo esplodere - dopo avergliene collocato nelle tasche alcuni quantitativi - delle cariche di esplosivo e mine e seppellendone quindi alcuni ancora vivi”. Klaus Konrad [...] è stato una figura politica importante. Ha fatto molto per il partito socialdemocratico negli anni della Ostpolitik, la nuova politica estera di Willy Brandt. Dal 1962 al 1969 è membro della Dieta dell’Holstein (il governo regionale), e nel 1969 viene eletto al Bundestag, nelle elezioni del grande salto della Spd, che manda all’opposizione la Cdu dopo vent’anni di governo ininterrotto. È rimasto al parlamento nazionale fino al 1980. Avvocato e poi notaio, fa parte della commissione giuridica dell’Spd. Poi va a dirigere l’Spd nel collegio elettorale dell’Holstein, membro della direzione con voto consultivo, carica che mantiene fino all’agosto di quest’anno, fino a quando non ha saputo che in Italia c’era qualcuno che aveva ancora qualcosa da chiedergli su un passato più remoto. Perché Konrad ha avuto anche un’altra vita. Nel 1933, a 19 anni, si è iscritto alle Sturmabteilungen, le “Sa”, sezioni d’assalto conosciute come “camicie brune”. Erano formazioni paramilitari del nazionalsocialismo istituite come guardia del corpo e servizio d’ordine nel 1921, per l’allora piccolo partito nazionalsocialista guidato da Hitler, del quale prende la tessera nel 1939. Dopo la strage di San Polo viene insignito della Croce di Ferro e promosso al grado di tenente. Alla fine del 1944 viene fatto prigioniero dagli americani. Poi torna alla vita civile. Il suo fascicolo è uno di quelli spuntati dall’ormai famoso “armadio della vergogna” della Procura militare di Roma, nel quale per anni sono stati nascosti 695 fascicoli con il timbro “archiviazione provvisoria” sui quali erano scritti i nomi delle vittime e dei responsabili dei crimini compiuti dai tedeschi dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Nel 1969 anche la magistratura tedesca aveva aperto un procedimento penale per questa strage, e si era interessata a Konrad. Non c’è mai stato processo, tutto si è arenato durante le indagini. Ma quegli atti, custoditi alla Procura generale di Ludwisburg, hanno permesso ai magistrati italiani di ripartire, nell’agosto del 2003. [...]» (Giusi Fasano, Marco Imarisio, “Corriere della Sera” 28/10/2004) • «Dopo oltre 60 anni d’oblio, gli è arrivato il conto indivisibile del massacro di 61 italiani, partigiani e civili, eliminati il 14 luglio del 1944 nell’Aretino, non senza essere stati torturati e costretti a scavarsi la fossa. [...] “Ho sempre sentito un peso sulla coscienza, per questo non sono mai tornato in Italia dopo la guerra. Poi, quando è stato arrestato Reder, per le Fosse Ardeatine, ho capito che sarebbe stato meglio per me restare alla larga [...] ero il terzo nella catena di comando del 274 Reggimento. Non ero io a decidere le modalità con le quali i prigionieri sarebbero dovuti passare dalla vita alla morte”. Dice proprio così, “dalla vita alla morte”, come se in mezzo non ci fossero stati pestaggi, umiliazioni, stupri, e altre ferocie accessorie. “Non ho partecipato all’esecuzione, non ho nemmeno assistito. Ho soltanto trasmesso gli ordini ricevuti [...] Possono esserci stati degli eccess, fra gli esecutori c’erano tre soldati russi che erano stati prigionieri dei partigiani arrestati e dei loro fiancheggiatori [...] Furono interrogati. Sì, duramente. Piaccia o non piaccia, i metodi in guerra non sono quelli dei tempi di pace. Io non avevo alcun motivo d’infierire sui prigionieri. Non ero un militare di professione, non avevo il dente avvelenato con gli italiani. Non odiavo nessuno. Trasmettevo solo gli ordini. E gli ordini erano di farli parlare [...] La nostra sfortuna è stata quella di imbatterci in un disertore tedesco, che per salvarsi la vita promise in cambio di portarci alla cattura di 50 partigiani, protetti dalla popolazione locale. Credo che poi sia stato giustiziato lo stesso, da un’altra unità [...] Ho provato sensi di colpa, ma ero giovane e, dopo la guerra, cercavo di ricacciare i pensieri. Volevo soltanto dimenticare [...] Il parroco del paese ha detto che mi sono comportato con sarcasmo e cinismo, quando è venuto a chiedere per le famiglie i resti dei morti. È vero, risposi che non doveva essere rimasto molto, dopo che erano state buttate le bombe nella fossa comune. Ma non intendevo affatto essere sprezzante, sono luterano e ho il massimo rispetto per la religione cattolica. Quando il sacerdote aveva chiesto la grazia per i prigionieri, io andai dal comandante a riferire, ma la risposta era stata negativa. Non potevo fare altro”» (Elisabetta Rosaspina, “Corriere della Sera” 29/10/2004).