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 2004  ottobre 23 Sabato calendario

Hariri Rafiq

• Sidone (Libano) 1 novembre 1944, Beirut (Libano) 14 febbraio 2005 (autobomba). Politico • «[...] Aveva la determinazione di quelli che non sono nati con la camicia. In seguito si comprò il negozio di stoffe, ma non la tintoria e più di una macchia gli restò addosso. Nacque nel ’44 da famiglia contadina nella città di Sidone, dove, forse perché lo conoscevano bene, non lo amarono mai. A causa di problemi economici non finì l’università ed emigrò nel Golfo per lavorare nelle costruzioni. Progettò in grande, tanto da diventare l’immobiliarista di fiducia di re Fahd. Non è mai stato chiaro se l’abbia conquistato cedendo una moglie o consegnando un palazzo in tempo record. Certo è che andava di fretta e non aveva scrupoli. Mentre in Libano si combatteva, lui ammucchiava soldi in Arabia Saudita. A fine guerra si comprò le macerie della sua patria. Pagò di tasca propria per ripulire le strade. Diede milioni di dollari in beneficenza. Comprò tutta la terra possibile, tutti i ruderi ancora in piedi, fondò un consorzio per la ricostruzione e se ne tenne una parte. Senza preoccuparsi del conflitto d’interessi, scese in campo e governò, dal ’92 al ’98. Formidabili (soprattutto per lui) quegli anni. Nessun altro aveva ancora ricostruito una parete a Beirut, lui rimise in piedi la città. Se non lo fece con buon gusto e disinteresse, fu un peccato veniale. Usò tutte le sue relazioni: con i sauditi, con Chirac, Clinton, Berlusconi. Era uomo di molti, ma non di tutti. Con i siriani non s’intendeva. Non è così secondario dire che fu, anche, una questione di stile. A lui, spesso conciato come un capitano di yacht, proprietario di una villa a Washington più grande della Casa Bianca, l’apparenza e il regime un po’ soviet di Damasco andavano di traverso. Al punto da inibirgli l’innato istinto per la diplomazia e il trasversalismo. Quando nel ’98 la Siria impose alla presidenza Lahoud, con il suo sorriso vacuo e le sue cravatte gialle, Hariri si fece da parte. ”Mi dedicherò agli affari”, disse. Non gli restava poco: un’impresa immobiliare, una telefonica, una tv, un giornale, un posto tra i 100 uomini d’oro di ”Fortune”, una moglie, sette figli, molte amiche, per lo più dedite al canto. Due anni dopo, nel 2000, era di nuovo in sella. Salvò il Libano dalla crisi economica chiedendo sovvenzioni ai suoi amici in tutto il mondo, importò Luciano Pavarotti facendolo volare sul suo Boeing 727, strinse buoni rapporti con la nuova amministrazione americana. Ma con Lahoud e la Siria, niente. Nelle elezioni locali della primavera 2004 subì una sconfitta. Pensarono si fosse indebolito. Di nuovo in difficoltà economiche, la gente non vedeva più in lui un salvatore, ma un illusionista. E, costretta a sacrifici, ne biasimava i lussi. L’estate del suo scontento fu prevedibile, ma altrettanto era che stesse per preparare il ritorno in scena. Stavolta, però, per restarci. Aveva capito che, per riuscirci, doveva cambiare le regole del gioco nella politica libanese. E le regole erano: non ci sono regole. Non in Libano. Le regole le fa Damasco. Hariri stava alleandosi, come sempre per interesse più che per convinzione, con chi voleva tagliare il cordone ombelicale con la Siria. opinione diffusa che questo lo abbia perduto. stato il meno arabo dei leader arabi e il più levantino tra loro. Lascia un’eredità formidabile, che nessuno incasserà. Avendo avuto per sé sogni smisurati, qualcosa ha smosso anche nella sua terra dove pochi pensano al di là del proprio recinto. Era di casa dove altri non sono mai andati. Ha commesso peccati enormi di gola e di corruzione. Non è per quelli che ha, infine pagato» (Gabriele Romagnoli, ”la Repubblica” 15/2/2005). «Le domande non gli piacevano. Quando decideva (raramente) di concedere un’intervista, teneva una mano vicina al registratore dell’ospite, pronto a intervenire nel caso gli fosse sfuggita una frase compromettente. ”Non me l’attribuisca, per favore”. Però con alcuni giornalisti aveva un rapporto amichevole. Non poteva essere diversamente, anche perché il miliardario Rafik [...] era una potenza nel mondo dell’informazione libanese: quasi un Murdoch mediorientale. [...] Diceva che, anche grazie a lui, artefice numero uno della ricostruzione del Libano dopo 16 anni di guerra civile, la stagione delle violenze era finita per sempre. [...] era fiero del suo passaporto libanese. Se avesse avuto soltanto l’attrazione per il denaro, sarebbe rimasto nel suo generoso Paese d’adozione, l’Arabia Saudita. A Riad era giunto, in cerca di fortuna, dalla natia Sidone, nel Sud del Libano, e in pochi anni aveva accumulato una fortuna immensa, tanto da diventare uno degli uomini più ricchi del mondo. La famiglia reale l’aveva praticamente adottato, aiutandolo nelle sue imprese immobiliari. Era così potente che, durante gli anni del conflitto libanese, quando veniva mandato in missione a Beirut per tentare una mediazione, appena il suo aereo si stagliava nel cielo libanese i cannoni tacevano per consentire l’atterraggio. Riprendevano le ostilità a decollo avvenuto. Ma dopo gli accordi di Taef, che in sostanza segnarono la fine della guerra, Hariri era pronto a coronare il suo sogno. Tornare in patria come il salvatore. Non c’erano difficoltà istituzionali, perché la prassi prevede che il presidente sia un cristiano maronita, il capo del governo un sunnita, e il presidente del parlamento uno sciita. Il miliardario di Sidone, sunnita doc, aveva tutto per riuscire nell’impresa: una ricca società immobiliare, Solidère, creata per raccogliere i fondi necessari alla ricostruzione del Paese; l’iniziale compiacenza della Siria; l’ombrello politico di Chirac; la fiducia delle centrali finanziarie; la volontà di restituire Beirut agli splendori di un tempo. In dieci anni il miracolo si è compiuto. Il centro della capitale è un gioiello architettonico. Le gigantesche spese, che hanno rischiato di spingere il Libano verso derive argentine, sono state compensate dal massiccio sostegno internazionale e dalla rinascita del turismo. Dopo l’11 settembre 2001, i ricchi sauditi e kuwaitiani hanno deciso infatti che al posto delle mète consuete, New York, Londra, Parigi, era più comodo e sicuro cercare comfort e divertimenti nella vicina oasi del Paese arabo che è il meno arabo e il più tollerante di tutti. Con l’Italia, Rafik Hariri, decisamente francofilo, ha avuto rapporti difficili: gli appalti per la costruzione dell’aeroporto hanno penalizzato severamente le nostre imprese. Ma con la vittoria alle elezioni di Silvio Berlusconi, la situazione è cambiata. Con il presidente del Consiglio, Hariri (che cercava di emularlo) aveva tessuto un rapporto di solida amicizia. Una volta all’anno, in Sardegna, i suoi tre yacht si avvicinavano a Punta Lada, di fronte a villa Certosa, per la sontuosa cena che il premier offriva a Berlusconi. Dopo la strage di Nassiriya, Hariri ci confidò: ”Volevo mandargli le condoglianze. Non l’ho fatto, perché a quel punto avrei dovuto farlo anche con gli Stati Uniti. Mi sarebbe stato difficile”. [...]» (Antonio Ferrari, ”Corriere della Sera” 15/2/2005). «Noto anche come il Berlusconi del Medio Oriente. Tra loro le differenze sono essenzialmente due. Hariri ha una cosa in più: un paio di baffi di occhettiana memoria capaci di irradiare ”sconcia allegria”. E [...] una in meno: il potere. Si è dimesso dalla carica di primo ministro e ha iniziato, anche lui, una ”traversata del deserto”. La seconda dopo quella che, in perfetta sincronia, compì alla fine degli Anni Novanta (1998-2000). [...] a indurlo a uscire di scena [...] l’impossibile coabitazione con il capo dello Stato, il cristiano Emile Lahoud. [...] Irresistibile la sua ascesa, ancora indecifrabile la gravità della sua caduta, evidenti nel suo percorso le similutudini con il ”gemello separato alla nascita”. Quella di Hariri avviene nel 1944, nella provincia di Sidone, da famiglia sunnita di modesti agricoltori, del che va fiero. A 18 anni, come molti, emigra in Arabia Saudita e svolge lavori prima umili, poi avventurosi, infine redditizi. Entra nell’edilizia e sale in cima. Leggenda vuole che ci arrivi barattando una donna per un contratto: lascia un fiore del deserto, uno dei Saud lo coglie, Hariri ottiene un appalto miliardario. Certo è che rispetta sempre il budget e consegna in tempo record. Fonda la Oger, con sede a Parigi, dove ha un amico potente: Jacques Chirac. Alla fine della guerra civile torna in Libano e scende in campo in due settori: comunicazione e politica. Possiede ”Future Tv”, l’emittente ”Radio Orient”, il quotidiano ”Al Mustaqbal”. Da quelli sospinto si assicura la più alta carica concessa a un sunnita: la presidenza del consiglio. Crea il consorizo Solidere che ricostruisce il centro storico. Dalle macerie a Islam-Disney, ma ora sta in piedi. Gli ex proprietari lo accusano di speculazione. Il lungomare diventa un cantiere e le schegge di cristallo che sorgono hanno appartamenti extralarge che solo gli sceicchi sauditi possono permettersi. Il Libano conosce una crisi economica, la corruzione dilaga, diventa presidente Lahoud. il ’98: Hariri è indotto a farsi da parte. Nel 2000 ritorna come salvatore della patria. Salva se stesso. Mentre era via si è occupato di un progetto di costruzione a Washington: la casa più grande d’America, al cui confronto quella Bianca sembrerà una dependance. La camera da letto misura quanto un campo di calcio. ”Come ci arriva in bagno, di notte?”, chiede un giornalista all’architetto. Quello risponde: ”Non gli metta il dubbio o ci fa costruire un ascensore per il bagno del piano superiore”. Costo previsto: 45 milioni di dollari. Hariri ne guadagna 4 miliardi l’anno. Entra nella classifica di ”Forbes” e con il portafoglio di chi è lì per restare. Affida la Oger al figlio Saad [...] coda di cavallo, barba e sigaro, nato in Arabia Saudita e uso a viaggiare con il jet personale dall’infanzia. Mentre il padre si scontra con il presidente, fa strappi alle regole per lasciar costruire la moschea più grande di Beirut, non riesce a ridurre le tasse mentre crollano i redditi e il potere d’acquisto, Saad si diverte con il cellulare, facendo accordi per la telefonia mobile in Africa e nell’Europa dell´Est. Incombe in Libano la privatizzazione del settore, Hariri promette che ”non favorirà nessuno”. Non viene creduto. Come Berlusconi, suscita in molti oppositori ossessione e inedita ferocia. Una cortese signora della borghesia di Beirut, candidata per l’opposizione cristiana, parlandone fa seguire ogni volta al suo nome un rituale ”possa cadere da una roccia e rimbalzare più volte”. Lui risponde con gentilezza estrema. Una sera la sua auto ha sfregiato quella di un oppositore, parcheggiata in rue Monot. Un attimo dopo l’uomo, seduto nel proprio ristorante, ha ricevuto una telefonata con cui il primo ministro si scusava e insisteva per pagare i danni, benchè irrilevanti. Ancor più gentile con l’autista stesso, che aveva emesso assegni per centinaia di migliaia di dollari con il libretto di sua moglie: non l’ha mai denunciato. ”Per evitare inchieste sui suoi depositi bancari”, dicono i nemici, pronti a colpirlo [...] L’errore che paga è stato aver fatto appello alla Francia contro i siriani, provocando la risoluzione Onu marcata Chirac (la firma degli Usa è un atto dovuto). [...]» (Gabriele Romagnoli, ”la Repubblica” 21/10/2004). «Nato da una modesta famiglia di Sidone e morto prematuramente da miliardario nel pieno centro di Beirut, Rafiq Hariri era il simbolo del Libano moderno. Un paese che, dietro gli intricati giochi di potere e i bizantinismi della politica, ama ostentare un’immagine di sicurezza e di ricchezza. Anche lui, che non a caso si faceva chiamare Mr. Lebanon, era potentissimo e fragile al tempo stesso, volitivo ma instabile, arrogante ma insicuro. Primo ministro dal 1992 all’ottobre 2004 (con un’interruzione di due anni, dal 1998 al 2000, quando l’esecutivo venne guidato da Salim Hoss), Hariri era l’uomo più ricco del paese dei cedri. Proprietario di un vero e proprio impero edile, magnate televisivo, grande macchinatore dietro le quinte, l’ex premier aveva una fortuna personale stimata intorno ai sei miliardi di dollari. Con un passato da insegnante in Arabia saudita, dove conobbe un’ascesa folgorante (e sospetta) nel settore edile, che lo proiettò nell’orbita protettiva di re Fahd, Hariri è tornato in patria alla fine della guerra civile, acclamato dai suoi sostenitori come l’’uomo della ricostruzione”. La sua discesa in campo nell’arena della politica è figlia dell’accordo di Taif (1989), che definì la distribuzione delle cariche politiche in base all’appartenza religiosa: la presidenza della repubblica a un cristiano maronita, la carica di premier a un musulmano sunnita e la presidenza del Parlamento a un musulmano sciita. Simbolo del compromesso e del cambiamento, ma anche uomo d’affari chiacchieratissimo, miliardario esibizionista e palazzinaro privo di scrupoli, Hariri non ha mancato di attirarsi più di un’antipatia, tanto all’interno della variegata società libanese che nella regione, dove era considerato un uomo dei sauditi (e, per riflesso, degli americani). Fiero avversario della presenza militare siriana in Libano, si era dimesso dalla carica di premier dopo aver cercato in tutti i modi di opporsi alla revisione costituzionale che prolungava di tre anni il mandato del presidente Emile Lahoud, noto uomo di Damasco. Ma era già in lizza per ricandidarsi alle elezioni legislative [...] con le quali avrebbe tentato di ottenere una rilegittimazione per premere l’acceleratore sul dossier del ritiro delle truppe siriane, sfruttando anche il mutato contesto internazionale. Amico personale di Jacques Chirac [...] questo Berlusconi d’Oriente amava il bel mondo della politica e i coups de théâtre: [...] ricevette una vera e propria ovazione quando riuscì a portare a Beirut il tenore Luciano Pavarotti, che venne trasbordato nella capitale libanese sul suo personale Boeing 727, simile all’Air force one dei presidenti americani. Dal momento del suo ritorno in Libano, Hariri aveva sommato il suo crescente potere politico a una moltiplicazione dei propri affari, culminata nella creazione del consorzio Solidère (di cui era azionista di maggioranza), che si è accaparrato i gustosissimi appalti della ricostruzione del centro e del porto di Beirut. Grande fautore di privatizzazioni a proprio favore, Hariri ha lasciato il paese dei cedri in una situazione di profonda instabilità economica, con un debito pubblico e un buco di bilancio di dimensioni allarmanti. Ciò nonostante, nel labirinto della politica libanese - dominata dagli intrighi e dagli accordi sottobanco - continuava a godere di un certo credito e di un’incontestabile influenza. Un’influenza che, a giudicare dagli eventi [...], gli è stata fatale» (S. D. B., ”il manifesto” 15/2/2005). «[...] non era solo un leader arabo di estrema importanza [...] era un nodo di contatti, di scelte e anche di contraddizioni che aveva tuttavia percorso con cautela, ma con decisione una lunga strada, quella della democratizzazione e dell’indipendenza dalla Siria, e quindi anche dell’affrancamento dallo strapotere ormai istituzionalizzato degli hezbollah e dall’influenza dell’Iran, che certo ad Hariri, in quanto sunnita, risultava più pesante. Hariri, elencato da Forbes fra i cento uomini più ricchi del mondo [...] pieno di vitalità, molto amico di grandi industriali, di notabili di tutto il mondo e di teste coronate specie nell’ambito saudita, e in Arabia Saudita aveva anche abitato a lungo; tornato, era stato un protagonista della turbolenta vita libanese diventandone primo ministro [...] gestendone con uscite e rientri le impossibili crisi, e di fatto diventando rapidamente un nemico indicato a dito dal largo partito favorevole dall’occupazione siriana o comunque connivente. Questo non gli aveva impedito di diventare il protagonista di quella ricostruzione di Beirut che [...] aveva richiamato turisti da tutto il mondo in una capitale rifiorita, anche se qualcuno seguitava ad accusarlo di aver sempre tenuto molto d’occhio, oltre che alle sorti del suo Paese e della città in cui era nato e si era laureato in Economia e Commercio, anche quella fioritura di cemento e di alberghi che aveva sempre aggiunto denaro alle sue fortune. E tuttavia, nella ricostruzione di Hariri, c’era specie ultimamente sempre l’intenzione, anche se talvolta cifrata, di raggiungere la libertà, di liberarsi dalla dominazione siriana, e persino, come aveva detto più volte, di pacificare quel confine con Israele che gli hezbollah rendono bollente anche dopo il ritiro dell’esercito e il riconoscimento dei confini da parte dell’Onu. Insomma, Hariri era l’uomo del futuro, nonostante fosse stato costretto a dimettersi [...] per far posto a Emile Lahoud, il presidente filo siriano [...] Da tempo l’uomo, pur senza prese di posizione troppo dirette, aveva preso a sostenere con grande abbondanza di mezzi l’opposizione libanese. Per questo forse la tv di Hariri, ”Fortune”, era stata colpita, i suoi uomini uccisi. [...]» (Fiamma Nirenstein, ”La Stampa” 15/2/2005).