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 2004  ottobre 22 Venerdì calendario

MENCH Rigoberta Cimel (Guatemala) 9 gennaio 1959. Premio Nobel per la Pace 1992 • «Prima ambasciatrice degli indios del mondo

MENCH Rigoberta Cimel (Guatemala) 9 gennaio 1959. Premio Nobel per la Pace 1992 • «Prima ambasciatrice degli indios del mondo. [...] strabismo maya [...] faccia rotonda [...] ha visto morire la madre sotto tortura, ha ritrovato il corpo di un fratello ragazzo e ha saputo dai giornali del padre bruciato nell’ambasciata spagnola [...] ingiustamente allontanata dalle masse per aver approvato l’amnistia e per quel muoversi ”come una bianca” che la vita tra Messico, New York e l’Europa insinua nella sua personalità [...]» (Maurizio Chierici, ”Sette” n. 37/1997) • «Borges proponeva l’Universo sotto forma di libro: nelle sue pagine c’erano le nostre vite, e i fiumi, e le montagne e anche tutte le biblioteche con tutti i libri, scritti e da scrivere. Era il Libro. L’iperbole, di casa in America Latina, esagera una verità quotidiana: ci sono libri che oltrepassano la mera lettura, che entrano nella nostra vita e riescono a incidere nella coscienza di tante persone, creando nuove consapevolezze, nuovi orizzonti, nuove cartografie del mondo. Uno di questi libri è Mi chiamo Rigoberta Menchú. Nella versione spagnola ha un sottotitolo; ”…e così mi nacque la coscienza”. Una persona, dopo averlo letto, esclamò: ”Così è nata la coscienza anche a me!” Fu dettato, durante una lunga settimana parigina, all’antropologa venezuelana Elisabeth Burgos, che riordinò la conversazione e le diede forma. Il risultato è un testo fondamentale, commovente e profondo, di grande densità umana. Menchú era arrivata a Parigi, durante un giro internazionale, in cui raccontava a pubblici ogni volta più numerosi ciò che accadeva in Guatemala. Una guerra interna silenziosa e terribile, che durava da vent’anni nella totale distrazione internazionale. Fra i tanti guatemaltechi scappati per salvare la vita, c’era questa donna minuta, che non arrivava ai 25 anni, paffuta e tondetta, come una figurina di Jaina, vestita con gli abiti tipici dei maya, con una parlantina affascinante. In una intervista di Paolo Mercadini, dice: ”Cristo affermava che uno, dopo aver subito uno schiaffo (e si dava un tenue schiaffo) deve porgere l’altra guancia (e si toccava il volto), ma noi abbiamo già posto l’altra, e l’altra, e l’altra, e l’altra…!». Si rideva davanti alla grazia di quella ragazza, e ci si rendeva conto di avere di fronte una grande affabulatrice. L’avevano notata in una conferenza stampa a Managua, nei primi anni Ottanta. Diversi indigeni avevano reso testimonianza della loro sofferenza, ma quella che aveva catturato la loro attenzione, per il carisma delle parole, era stata la figlia di Vicente Menchú. Da qui la portarono da una parte all’altra, fino al momento in cui si decise di scrivere un libro. Perché Mi chiamo Rigoberta Menchú era qualcosa in più di una denuncia delle atrocità commesse dall’esercito guatemalteco durante i quarant’anni di guerra interna. Il libro aveva la cadenza, il ritmo, la lingua di una favola, perché Rigoberta aveva deciso di raccontarlo tutto, da quando era bambina. Quello che viene fuori è uno sguardo di una civiltà ricca e composita, la civiltà dei maya contemporanei, con i suoi riti e i suoi giochi, le sue credenze e le sue feste, le sue gerarchie e le sue leggi. Un mondo tanto diverso dal mondo occidentale, un mondo senza macchine e senza fretta, coi fiumi che scorrono scandendo il passaggio del tempo, i campi di mais da coltivare come facevano gli antichi, il sole che sale e scende per la sua strada celeste fino a sprofondare ogni notte nell’inframondo. Un mondo tanto diverso e, allo stesso tempo, tanto uguale, perché nelle storie che Rigoberta racconta c’era un mare di differenza, ma anche una strana vicinanza a tutti noi. Ecco il segreto del libro: ciò che succede a quella piccola donna indigena succede anche a me. L’identificazione riesce in un punto solo, quello nodale di questa opera centrale. Il punto è il suo essere profondamente umano. Così, mentre ci incantano i segreti della religiosità cattolica maya, ci trascinano i dettagli quotidiani, uguali per tutti gli uomini e le donne di questo mondo: l’amore per i genitori e per i nonni, le birichinate dei bambini, la rabbia e l’impotenza davanti a certe ingiustizie. Rigoberta ci racconta dei nawales; per ognuno di noi che nasce, nasce contemporaneamente un animaletto, che ci rappresenta. Una tigre, un’aquila, un cavallo, ma anche un topo, un maiale, uno scarafaggio, perché no? E ci racconta pure che, per i maya, la terra è un dio vivo, per cui, prima di lavorarla, si fa una lunga cerimonia in cui si chiede il permesso a questa Madre immensa perché, ferendola, ci dia il nostro alimento. La favola diventa nera con l’arrivo di chi vuole rubare le terre e continuare a sfruttare i maya. E parte la persecuzione contro tante famiglie, anche contro i Menchú. Il padre muore bruciato vivo, durante un’occupazione; la madre torturata e uccisa, e il cadavere esposto all’intemperie e agli animali, mentre il resto della famiglia trema, di paura e di orrore, braccata dai genocidi. Lei e una sorella, scappano nel Chiapas, dove vengono accolte dal vescovo Samuel Ruiz. Di nuovo, qualcosa di fiabesco succede in seguito. La piccola indigena rifugiata si mette a studiare, dorme tre ore la notte pur d’imparare lo spagnolo e capisce di avere il dono della parola che la porterà al libro. La grande dimensione umana di Rigoberta si rivela dopo. Invece di cercare vendetta contro gli assassini della sua famiglia, usa la grande fama per portare la pace in Guatemala. Ripete una parola desueta: ”perdono”. E un’altra: ”riconciliazione”. Diventa uno degli attori fondamentali per stabilire un tavolato di negoziati che porteranno agli Accordi di Pace del 1996, con cui finisce la guerra interna. Il Premio Nobel per la Pace, del 1992, è più che meritato per una donna che ha fatto della costruzione positiva del suo paese lo scopo della sua vita. Oggi, Rigoberta è Ministro dell’attuale governo del Guatemala, incaricata di vegliare per il compimento di quegli Accordi. Scrive favole per bambini, lotta contro la burocrazia, la corruzione e il razzismo, ma è un simbolo del sogno che un mondo migliore è realmente possibile. La sua vita è la dimostrazione: prima una favola, poi un incubo e poi di nuovo una favola. E il suo ruolo, lo stesso. Come l’invocazione quasi religiosa, di un indigeno maya mentre entravamo al salone municipale di Chimaltenango: ”Parli per noi, signora”!» (Dante Liano, ”La Stampa” 15/11/2005).