varie, 21 ottobre 2004
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KHALILZAD Zalmay Mazar-I-Sharif (Afghanistan) 22 marzo 1951. Politico • «Proconsole della Casa Bianca a Kabul [
KHALILZAD Zalmay Mazar-I-Sharif (Afghanistan) 22 marzo 1951. Politico • «Proconsole della Casa Bianca a Kabul [...] conosce l’Afghanistan come le sue tasche. Per esserci nato (a Mazar-i-Sharif); per appartenere all’etnia pashtun, quella dominante; per non aver mai perso i contatti con la terra d’origine, anche dopo aver preso la cittadinanza americana. [...] Khalilzad, che per le sue scoperte attitudini all’ingerenza a Kabul chiamano il ”vicere” o ”Richelieu” [...] con tanto zelo aveva tramato a favore di Karzai. Come inviato speciale della Casa Bianca per l’Asia e il Medio Oriente, Khalilzad aveva caldeggiato nei corridoi del Dipartimento di Stato la scelta del leader pashtun già nell’ottobre 2001, prima della cacciata dei talebani. E nel 2003, durante lo svolgimento della Loya Jirga (la grande assemblea dei capitribù) convocata per approvare la nuova Costituzione, aveva imbastito nell’ombra la rete di alleanze per far eleggere il suo pupillo presidente ad interim. Comprando a suon di dollari, insinuano gli antipatizzanti, il consenso delle etnie più riottose. Stemperando, di fatto, le tensioni tribali fra i capi dell’Alleanza del nord che aveva messo in fuga i talebani, con l’elargizione di ampie fette di autonomia alle minoranze dei tagiki, degli uzbeki e degli hazara. Nominato ambasciatore nel settembre dello stesso anno, Khalilzad aveva trasformato la sede diplomatica statunitense in una succursale della ”green zone” di Baghdad. Una fortezza inespugnabile, attaccabile solo con i razzi, inaccessibile alle autobomba. Ma, conoscendo l’insofferenza per le invasioni dei connazionali, aveva dato disposizione che il nucleo più consistente dell’armata americana (18 mila soldati) rimanesse confinato nella base di Bagram, a un’ora da Kabul. tuttavia acclarato che è stato sempre lui [...] a indicare le rotte di marcia per Karzai. A imporgli l’accelerazione del processo democratico con la complicatissima registrazione di milioni di cittadini per i quali le elezioni equivalevano a uno sbarco su Marte. A ordinargli la rifondazione dell’esercito e della polizia. Non c’è nomina di alto livello che non abbia ottenuto la sua approvazione. Quando poi il prestigio di Karzai (declassato nella considerazione internazionale al rango di sindaco di Kabul) è stato ulteriormente indebolito dagli appetiti insaziabili dei signori della guerra, lo ha spinto a mettere da parte la sua leggendaria gentilezza e a dare un esempio di fermezza. La vittima sacrificale è stato Ismail Khan, il feroce padrone di Herat protetto dagli iraniani, costretto ad abbandonare la sua poltrona e a salire sull’Aventino in attesa di eventi. Ma il fronte in cui Khalilzad si è più attivato è stato quello della lobby elettorale. Facendo esplicitamente campagna in favore di Karzai. E giungendo a far pressione su alcuni dei suoi più temibili concorrenti perché si ritirassero. [...] A Kabul i più anziani hanno cominciato a paragonare l’esuberanza sfacciata del viceré al colonialismo dispotico dell’impero britannico. E le accuse di interferenza si sono intensificate alla vigilia del 9 ottobre. Attirando nelle campagne anche i fulmini degli imam meno suggestionabili dal sogno americano. [...] Khalilzad è un rullo compressore che ama travolgere gli ostacoli. In America lo considerano un falco che, di fronte alle emergenze, privilegia l’opzione militare su quella politica. Approdato al seguito della famiglia in California da adolescente, interrompe il soggiorno in Usa per una prima laurea in scienze politiche all’università americana di Beirut. Cui ne segue una seconda a Chicago, con una tesi sui progetti nucleari dell’Iran. Per la teocrazia di Teheran ha sempre manifestato un morboso interesse. Al punto da averci scritto un libro, insieme con la moglie (austriaca) Cheryl Benard. Nei primi anni Ottanta insegna dottrine politiche, sotto l’ala protettrice di Zbigniew Brzezinski, all’università Columbia di New York. Dopo l’elezione di Reagan mette piede come consulente al Dipartimento di Stato. E riprende contatto con il paese d’origine finanziando la lotta dei mujaheddin contro l’invasione sovietica. Il suo spessore politico si irrobustisce sotto la presidenza di George Bush, che lo nomina inviato speciale per l’Iraq. Prima della Tempesta nel Deserto, riannoda le file con gli oppositori di Saddam in esilio. Galleggia, nonostante il suo smaccato conservatorismo, anche durante l’era Clinton. Dal laboratorio di strategie della Rand Corporation consiglia all’amministrazione democratica di disfarsi di Saddam. Del paese natale si occupa in veste privata. funzionario dell’Unolocal, una società petrolifera americana per la quale elabora un costosissimo progetto di oleodotto che dal Turkmenistan, attraverso l’Afghanistan, avrebbe dovuto sfociare nei mari del Pakistan. Al potere a Kabul sono intanto arrivati i talebani. Ma il ”falco” sa essere anche un affarista pragmatico. Spaccia a Clinton il regime del mullah Omar come una congerie di cultori fanatici del Corano, ma non contagiati dal fondamentalismo di Teheran. E quindi meritevoli di aiuto. addirittura nella delegazione che nel ”97 riceve in una visita ufficiale in Texas un ministro talebano. Dopo l’11 settembre è fulminea la sua conversione. Si trasforma in un accanito neoconservatore, ispirato da Paul Wolfowitz, il numero due del Pentagono. E si fa dare da George Bush carta bianca per sbarazzare il suo paese dai protettori di Bin Laden e avviarne in seguito la ricostruzione. Missione (quasi) compiuta. Anche se per gli afgani più che un parente rientrato a casa rimane un ”amerikano”. Nessuno è profeta in patria. A lui bastano gli elogi di Bush. Un cruccio però gli rimane. Lo spettro di Osama che i suoi 18 mila soldati non riescono a stanare dalle grotte lungo il confine con il Pakistan [...]» (Gianni Perrelli, ”L’Espresso” 21/10/2004).