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 2004  ottobre 20 Mercoledì calendario

ALBARRACÍN Pilar Siviglia (Spagna) 27 settembre 1968. Artista. «Una estrella, una di quelle figure che rinviano - attraverso il fulgore delle proprie opere - due sensazioni così apparentemente antitetiche come stupore e immedesimazione, e che proprio per la improbabilità della loro coesistenza diventano una alchimia necessaria

ALBARRACÍN Pilar Siviglia (Spagna) 27 settembre 1968. Artista. «Una estrella, una di quelle figure che rinviano - attraverso il fulgore delle proprie opere - due sensazioni così apparentemente antitetiche come stupore e immedesimazione, e che proprio per la improbabilità della loro coesistenza diventano una alchimia necessaria. [...] Famosissima e palpitante performer, Albarracín possiede anche il virtuosismo di imporsi con variegate incursioni formali che si diramano tra la video-installazione, la fotografia, il ricamo, ”azione urbana. L’artista decostruisce l’eredità performatica degli anni 60 attraverso un potenziale critico che la libera dall’autolesionismo tragico dei vari azionisti, depolarizza la centralità dell’io, si sgancia dai cliché comportamentali e anzi sugli stereotipi sociali crea disordine. Il suo mondo, apparentemente legato a quel folklore andaluso che è congelato nei souvenir e nei carnet de voyage turistici, è invece un atto di ribaltamento prospettico, uno spiazzamento magnetico. [...] una caleidoscopica tenda sospesa in alto realizzata con 300 traje de faralaes (vestiti di flamenco) che Pilar ha recuperato in varie chiese e santuari mariani tra le offerte votive che molte donne andaluse offrono alla Madonna [...] un tirassegno che interagisce con lo spettatore invitandolo a sparare alle piccole icone che sono appese: i re cattolici, Picasso, Béquer, i calciatori del Betis e del Siviglia, gitani, guardie civili. [...] Albarracín lascia sfociare l’estetica nel campo antropologico senza farne materiale didattico ma estrapolando dal suo contesto territoriale quelli che sono i presupposti di un evidente e ancora imperante nazionalismo, i cliché del folklore andaluso e allargandone i presupposti alla società consumistica in cui l’appartenenza e l’identità diventano le gabbie dell’essere umano. [...] Su un muro sono collocate delle vecchie gabbiette di legno in cui sono rinchiusi dei canarini, tranne in quella centrale dove un canarino impagliato e ricoperto da un vestito rosso, canta un flamenco. Ovviamente le gabbie alludono alle prigioni in cui queste canzoni venivano prodotte ma rimanda anche al carcere come luogo di costrizione culturale femminile. Il ricorso al gender non è per Pilar una posizione post-femminista ma è il ricollocamento del ruolo oltre lo stereotipo costruito dalla modernità. Il nazionalismo tendenzioso viene fuori nella performanceViva España (2004) in cui Pilar in una piazza di Madrid viene inseguita da una banda musicale che inneggia il pasodoble ”Que viva España” in cui si interrelazionano il sentimento popolare nazionalistico dei passanti e la violazione della propria privacy. Non manca in questo vibrante prisma referenziale l’allusione al potere attraverso la scultura Tartero (2004) in cui il toro diventa simbolo sacrificale del sangre y arena, dove il mondo rituale delle corride oscilla tra sentimenti di umiliazione e sacrificio, di sfida e di tragedia, di vinti e perdenti. Un toro impagliato a dimensione reale è inginocchiato ma non privato del proprio orgoglio, ”colto” nell’istante in cui prima di finire a terra dà l’ultimo sguardo al matador che infierisce su di lui con la stoccata mortale» (Teresa Macrì, ”il manifesto” 19/10/2004).