6 ottobre 2004
Tags : Shawnta. Rogers
Rogers Shawnta
• Nato a Baltimora (Stati Uniti) il 5 gennaio 1976. Giocatore di basket. Nel 2004/2005 alla Vertical Vision Cantù. «Sono short o bermuda? La domanda sorge spontanea vedendo Shawnta Rogers arrivare ciondolante all’interno del Pianella. Di lì sono passati tantissimi grandi della nostra pallacanestro, sotto quel tunnel si sono incrociati sguardi di battaglia quando Ford-Billy era sinonimo di sfida infinita e passionale. Sul quel parquet si è esibito, seppure per poco, Petur Gudmunsson, 2.18, così come Angelo Reale o Les Craft. Tutti giganti, per un verso o per l’altro... Lui è un chicco di grano che un’improvvisa folata di vento potrebbe portare via e depositare chissà dove. Gentile nei modi di fare, elegante nell’incedere e nel raccontare. Nel narrare una vita per il basket. L’incontro vis a vis è fondamentale per ”leggere” Shawnta: la prima impressione ti stende. Perché ti aspetti il nano in guerra contro il mondo dei titani, un metro e sessantuno di rabbia da scagliare contro chi la natura ha dotato di (tanti) centimetri in più. Invece trasmette calma e serenità: è in pace con se stesso. Non ha più nulla da dimostrare al mondo del basket. un giocatore come tanti, più o meno bravo, ma uguale ai suoi compagni. Non è un fenomeno da baraccone. andato oltre lo stupore, i sorrisi, le domande, alla lunga stucchevoli, sulla sua altezza. ”La gente non riuscirà mai a pensare a me in modo diverso. Sarò sempre ’quello incredibilmente piccolo’. Non importa quanto sono bravo, quanti punti segno, quante volte mi hanno visto giocare. Anche ora, se andiamo in campo, e trovo un ragazzino che assiste all’allenamento, mi indicherà con il dito. Sono alto come lui, anche meno. Non capisce cosa ci faccia lì in mezzo...”. Nessun rancore, nessuna amarezza. Lo dice con il sorriso sulle labbra. Le difficoltà per uno come lui, sono altre. O almeno, lo sono state. ”Sono cresciuto a Baltimore, nel Maryland, non esattamente una città senza problemi. stata dura, vivevo nel ghetto, quello vero. Ma non riesco a pensare a quei quartieri con risentimento od odio. Quella è e resta la mia casa. Chiunque esce da lì deve essere un duro, per forza di cose. O lo diventi o non ce la fai. E quando dico non ce la fai non intendo dire nel mondo del lavoro o su un campo da basket. Parlo di vita o di morte. Tanti miei amici sono finiti ammazzati per questioni di droga. Sono stato cresciuto da mia mamma, senza padre. Lei lavorava duramente per mettere il pane in tavola. un tipo tosto, mia mamma. Mi ha indirizzato sulla strada giusta, mi ha insegnato a stare lontano dai guai”. La pallacanestro non è stata però il modo per allontanarsi dalla delinquenza. ”Il mio primo, grandissimo amore, è stato il football. Giocavo running back, ma ero disponibile per qualsiasi ruolo, pur di scendere in campo. Poi, quando sono andato a vivere con un cugino che giocava a basket all’Università di Miami, cedendo anche alle insistenze di mamma, che non voleva vedermi con casco e imbottiture per paura che mi facessi male, iniziai a prendere confidenza con la palla a spicchi. A quel punto, al liceo, non ero tanto più piccolo degli altri. Ma mi sono fermato lì. E con il passare degli anni, più la gente mi diceva che non avevo la benché minima chance di sfondare nel basket, più mi intestardivo, per dimostrargli che avevano torto”. Il talento era indiscutibile, così le chiamate arrivarono, da parecchi college. Ma c’era il problema di un test d’ammissione da superare, uno scoglio che gli chiuse qualche porta. Non quella di George Washington, ateneo situato a 4 isolati dalla Casa Bianca. ”Arrivai e partii immediatamente in quintetto” ricorda Rogers. L’America dei canestri scoprì in fretta che Shawnta non era una curiosità, ma un playmaker vero. Nel 1999 venne eletto miglior giocatore dell’Atlantic 10 Conference (unico del suo college in 84 anni di storia), davanti a un paio di attuali stelle Nba quali Lamar Odom e James Posey. In un torneo disputato a Baltimore fu l’mvp davanti addirittura a Paul Pierce e Raef LaFrentz. Il giornalino dell’università, il ”GW Hatchet”, lo salutò con un commovente articolo, quando finì la carriera con i Colonials: ” stato il più grande atleta che George Washington abbia avuto negli ultimi 45 anni. Ha smesso di crescere tanto tempo fa, ma la sua leggenda non lo farà mai”. ”Gioco come gli altri, non penso mai alla differenza di statura quando sono in campo. E nemmeno voglio entrare nella testa degli altri, degli avversari. Ormai so cosa cercano di fare e come fermarli”. [...] Dopo il college ci fu la rabbia per la mancata chiamata della Nba, un timido tentativo con i Nets, un anno nella Ibl, dove si gioca con le regole europee, perché in molti poi finiscono dall’altra parte dell’Oceano. ”Volevo restare in America, perché sono tuttora sicuro di poter giocare tra i pro, volevo una chance per mettermi in mostra. Il sogno rimane quello, ma per ora sto bene in Europa. Ho ancora tanto da dimostrare”. [...] Sono lontani i giorni in cui entrava in campo e il pubblico avversario lo accoglieva con l’irridente coro ”Webster, Webster”, rifacendosi all’omonimo telefilm che aveva come protagonista Emmanuel Lewis, ragazzino nero alto poco più di un metro. ”Gioco per divertirmi. Il football resta il primo amore, perché adoro il contatto fisico, lo scontro. Ma il basket è passione. Quando sono in campo, anche se in testa ho sempre un obiettivo - la vittoria - cerco di arrivarci con un sorriso, perché mi rendo conto di quanto sono fortunato a fare ciò che mi piace”. Baltimore ha cullato anche un’altro piccolo fenomeno, Tyrone Bogues, il più basso nella storia della Nba. ”Mi sono ispirato a Mugsy, essendo oltretutto della mia stessa città. In molti mi hanno paragonato a lui quando giocavo al college. Non l’ho mai visto di persona, ma ci siamo parlati al telefono e mi ha dato dei consigli molto utili” [...]» (’La Gazzetta dello Sport” 1/10/2004).