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 2004  ottobre 05 Martedì calendario

Acconci Vito

• Hannibal New York (Stati Uniti) 24 gennaio 1940. Artista. «[…] artista statunitense tra i più rappresentativi dell’esperienza performativa, ha cominciato il suo percorso con la poesia, e il linguaggio è rimasto un punto fermo anche nel suo lavoro visivo. Body artist, video maker e, infine, architetto, Acconci […] ha sempre mantenuto la parola e il dialogo al centro della sua sperimentazione. […] “Quando scrivevo, soprattutto nell’ultimo periodo, realizzai che la cosa alla quale ero più interessato era il movimento all’interno del foglio, lo spostamento dal margine sinistro al margine destro e, ancora, di pagina in pagina. Pensavo al foglio come a uno spazio nel quale, come scrittore, potevo lavorare e consideravo lo scrivere quasi un viaggiare all’interno di questo spazio limitato. Mi persuasi così che non c’era motivo di arginare il mio interesse per il movimento entro un foglio di carta: avrei potuto estenderlo anche al pavimento, al tetto, all’intera città. Tra l’altro, il contesto artistico alla fine degli anni Sessanta era percepito da molti come un esempio di campo aperto, non circoscritto, delimitato soltanto dal nome. Vi si potevano importare problemi e pensieri da tutti gli altri domini della cultura, dalla psicologia, dalla sociologia, dalla fisica. Più tardi ho cominciato a chiedermi se per caso fosse la direzione ad essere sbagliata. Piuttosto che prelevare differenti elementi del mondo da far confluire nell’arte, forse si doveva prendere l’arte e portarla nel mondo. E questo è proprio ciò che fanno il design e l’architettura […] Mi piaceva che l’architettura avesse a che fare con i problemi del mondo reale e del resto già da tempo avevo cominciato a odiare la parola arte. Mi sarebbe interessata come verbo, come azione, ma non come sostantivo. Se fosse soltanto un verbo probabilmente esso indicherebbe un’attività molto semplice: prendere le cose e vedere cosa accade se le si capovolge. Ma questo lo fanno in tanti […] Una delle ragioni che mi ha spinto a dedicarmi all’arte è stato il risentimento per quei cartelli che ci sono nei musei e che vietano di toccare. In qualsiasi altra situazione della vita, la prima volta che ci si trova davanti a qualcosa di nuovo, lo si può prendere in mano, capovolgere, toccare, sentirne l’odore. Nell’arte questa esperienza è vietata, si deve mantenere necessariamente una distanza. Tutto ciò che ruota attorno all’arte, dunque, è fatto di desiderio e frustrazione. Probabilmente questo avviene per ragioni molto semplici: l’arte è costosa, molto più costosa delle persone che la guardano. […] Il minimalismo negli anni Sessanta produceva l’arte più straordinaria ed eccitante che avessi mai visto. In quel momento, quando entravi in uno spazio espositivo non sapevi mai dove andare a cercare l’opera, eri sempre confuso, dovevi guardare molto accuratamente. Questo ti rendeva consapevole dello spazio attorno a te, mentre prima del minimalismo potevi ammirare l’interno della cornice e ignorare il resto: la Minimal Art ruppe la cornice. Allo stesso tempo, proprio perché amavo così tanto il minimalismo, al suo interno non avrei trovato nulla da fare. Dovevo necessariamente trovare qualcosa di sbagliato: finché non uccidi tuo padre non puoi fare nulla. […] Tutti i lavori minimalisti erano realizzati con materiali industriali che non lasciavano vedere assolutamente il tocco dell’artista. A un certo punto mi hanno fatto pensare a quei monoliti neri impiegati da Kubrick in 2001 Odissea nello spazio, tanto non lasciavano intravedere la propria origine. Probabilmente questo avveniva perché gli artisti minimal reagivano, a loro volta, contro l’espressionismo astratto che trasformava l’artista in un sacerdote. Ma quando la fonte del lavoro è completamente omessa, l’autore è deresponsabilizzato. Per rendere più chiaro possibile chi fosse l’artefice del lavoro e dichiararne la responsabilità, ho cominciato a usare me stesso come uno strumento. […] Ho usato il suono sin dall’inizio, ma in modo più specifico da quando ho smesso di realizzare performance. Dalla metà degli anni Settanta, infatti, ho smesso di lavorare strettamente con il mio corpo, perché mi sembrava che in questo modo il nesso con le istanze del decennio precedente fosse troppo stretto. Mi angosciava il fatto di essermi troppo auto-rappresentato, di essere troppo presente con la mia immagine. Ho cominciato cosi a realizzare delle installazioni, a lavorare molto con lo spazio per dimostrare come l’arte non sia qualcosa di universale, ma sia sempre legata a un momento e a un luogo particolari. Riflettendo, dunque, sullo spazio e sulle persone che si sarebbero trovate a frequentarlo ho iniziato a impiegare il suono perché mi sembrava fosse un modo di farle interagire. […] faccio un tipico esempio del mio lavoro con il suono: un tavolo, degli altoparlanti sospesi con la mia voce che dice: “Adesso che siamo tutti qui, cosa ne pensate di Barbara?” In realtà non si trattava propriamente di un incontro perché la gente non poteva rispondere. Quello che tentavo di fare, comunque, era trattare il museo o la galleria come una piazza. È cominciato così il mio interesse per l’architettura, perché nel retro della mia mente ho sempre pensato che il museo non sarebbe mai potuto diventare un luogo pubblico. […] quando ho cominciato a realizzare dei lavori artistici, per me e per le persone della mia generazione, il museo era un luogo isolato al centro di una città. Ci chiedevamo perché i musei non avessero finestre, perché somigliassero a delle fortezze, perché fossero un mondo autoreferenziale senza connessione con l’esterno. Questo è stato indubbiamente il punto di partenza per buona parte del nostro lavoro: volevamo fare qualcosa contro il museo. […] Il fatto che la maggioranza dei musei esistenti non dedichi tutto lo spazio disponibile all’arte, ma anche ai negozi, alle librerie e ai caffè, credo sia paradossalmente un bene. Ritengo positivo che chiunque possa entrare e passarci un po’ di tempo senza pagare un biglietto d’ingresso. Almeno fino a quando non diventerà anch’esso il luogo delle corporations, e questo futuro non mi sembra così lontano. La mancanza di denaro dei musei, infatti, comporta che alcuni spazi siano affittati alle corporations per gli incontri e le feste di rappresentanza. Non è certo una deriva entusiasmante, ma non è peggiore delle dinamiche che rendono il museo isolato e autoreferenziale. Così, almeno, interagiscono fattori diversi, il che dà al museo buone possibilità di sopravvivere. Quando è presente un solo fattore, si arriva a un sistema in cui tutti devono credere nella stessa cosa, come fosse una forma di religione. Lo spazio pubblico è dato dalla convivenza di differenze, da un network di opposte attitudini. […]» (Elena Del Drago, “il manifesto” 13/3/2005).