Varie, 21 settembre 2004
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Gardner Richard
• N. New York (Stati Uniti) 9 luglio 1927. Politico. Ex ambasciatore Usa in Italia (sotto la presidenza del democratico Jimmy Carter, dal 1977 al 1981) • «’HIC sunt leones” scrivevano gli antichi sulle mappe per indicare luoghi selvaggi e pericolosi. Ed è del tutto plausibile che nel marzo del 1977, quando la nuova amministrazione di Jimmy Carter nominò Richard N. Gardner ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Roma fosse precisamente uno di quei luoghi, una delle sedi diplomatiche dove si sarebbe cominciata a giocare la partita terminale della Guerra Fredda. Neanche a farlo apposta, a Roma la residenza dell’ambasciatore è vicina al giardino zoologico. Così vicina, racconta Gardner nelle sue interessanti e anche divertite memorie (Mission: Italy, Mondadori, 444 pagine, 19 euro) che di notte da Villa Taverna era possibile sentire il ruggito dei leoni, appunto. Non solo, ma proseguendo con l’emblematico cortocircuito animalesco che allora condizionava quell’Italia messa a repentaglio dalla crisi economica e dall’avanzata del Partito comunista, ecco, poco prima che l’ambasciatore repubblicano John Volpe tornasse in patria, sul muro di cinta della residenza venne fatta ritrovare, macabro e minaccioso avvertimento, la carcassa di una volpe. Con una sigaretta in bocca, specifica Gardner, che giustamente coltiva il gusto dei particolari. Quanti ce ne sono nel suo libro. Il Presidente Cossiga che in visita a Washington non sa resistere alla tentazione (che già affliggeva il suo conterraneo Antonio Segni) di sollecitare con il Segretario di Stato Cyrus Vance l’abbattimento di certe barriere doganali che impedivano al pecorino sardo di varcare l’oceano. O Ingrao, neo presidente comunista a Montecitorio, che riceve il nuovo ambasciatore come se fosse ”un marziano”, ma nel gelo politico-protocollare a un certo punto divampano e scoppiano delle lampade, bùm, confusione, panico. Sono gli anni di piombo e in quell’Italia irrequieta si gioca l’ordine mondiale. In via Veneto, là dove un tempo fiorivano gli horti sallustiani, Gardner arriva con la più seria e avveduta attitudine del professore liberal, l’entusiasmo tutto carteriano per i diritti umani, ma soprattutto con il sussidio della moglie Danielle, «mio co-ambasciatore e preziosa collaboratrice», cui è dedicato il volume. con lei, di famiglia veneziana, che sagoma e confeziona lo stile anche culturale e mondano della sua mission. dalla famiglia di lei che il diplomatico impara, fin dall’aeroporto, appena sceso dall’aereo, a cavarsela dribblando la richiesta di un commento con una astuta sentenza nella lingua del Goldoni: ”Prima de parlar, tasi”. Bene, oggi con questo libro Richard ”Dick” Gardner ha parlato. E colpisce la varietà degli eventi, degli appuntamenti, delle esperienze che maturano, fermentano e si mescolano nel frullatore capitolino, tra il 1977 e il 1981, tra i palazzi del potere o in giro per l’Italia: dalle disposizioni impartite nei giorni dell’affare Moro al resoconto di un’animata discussione salottiera con Inge Feltrinelli (e poi con Luciana Castellina, incontrata a sorpresa nel più lussuoso albergo di Positano). Dalla questione dei visti un tempo negati ad artisti iscritti al Pci al risoluto intervento per bloccare la cessione da parte degli italiani di un laboratorio nucleare all’Iraq (come anche di certi elicotteri all’Iran) passando per il presago incontro con due giovani che faranno strada: un costruttore milanese con il pallino della televisione privata, «un certo Berlusconi», e un ministro-manager di Reggio Emilia appena licenziato dal governo, ma di cui Gardner indovina che diventerà presidente del Consiglio, Romano Prodi. Rivelazioni, poche. In senso stretto, forse soltanto quella che gli americani, d’accordo con il governo italiano, riuscirono a infiltrare un loro agente nelle Br dopo il caso Moro. In senso lato, si possono conoscere le disposizioni che gli Usa avrebbero messo in atto nel caso il Pci fosse riuscito a entrare al governo: e tutto sommato colpisce la cautela cui erano ispirate. Al terrorismo di destra non si accenna quasi. Su Ustica, lo stretto indispensabile. Mentre Licio Gelli, che pure in quegli anni si vantava di essere di casa in via Veneto, non una sola volta è nominato. In compenso Gardner offre al lettore curioso uno straordinario repertorio di giudizi, frutto del più meticoloso studio della fauna politica italiana. Descrizioni tanto più piacevoli da leggersi quanto più improntate a irriverente realismo. Giovanni Leone: ”Un uomo privo di qualsiasi fascino, non più alto di un metro e 50, con occhiali che poggiavano su un naso piuttosto grosso”. Andreotti, quindi, ”gran maestro degli scacchi”, dall’’aspetto ingobbito, da barbagianni, e le orecchie aguzze che facevano la gioia dei vignettisti”. Ecco Fanfani, con il quale ”una conversazione finiva per trasformarsi in una conferenza”. E l’’enigma” Moro: ”Benché estremamente colto e dotato di un’intelligenza penetrante - nota l’ambasciatore - parlava spesso con uno stile incredibilmente ambiguo”. Ma forse non poteva che esserlo, il povero Moro, più di ogni altro alle prese con il dramma geopolitico italiano. In fondo, Cossiga è l’unico, fra i dc, che esce bene dal racconto di Gardner, e proprio perché parlando chiaro e muovendosi in modo lineare anche a livello internazionale risulta abile a sbrogliare l’incandescente matassa degli euromissili. Gli altri potenti dello scudo crociato, il manovriero Fanfani (sempre pronto a presentarsi come ”garante” del Pci presso gli americani), l’agitatissimo Piccoli (di cui si racconta una tragica visita a Washington con finto incontro con il Segretario di Stato), ma soprattutto l’infido Andreotti (per due volte l’ambasciatore lo prende di petto sostenendo che non dice la verità) vengono descritti dal messo dell’amministrazione Usa come politici mossi sostanzialmente dalle loro inconfessabili ambizioni. Per cui cercano di aggirare l’ambasciatore, provano a coinvolgerlo nei loro giochi sottilissimi, cambiano idea di continuo, ora accomodanti, ora intransigenti, un giorno tentano di scavalcare il veto contro i comunisti, un altro denunciano a Gardner che i loro rivali hanno quel piano... La questione comunista è dominante. A tratti sfiora l’ossessione. Fin dall’inizio l’ambasciatore deve vedersela con aspettative sballate, distorsioni di pronunciamenti americani, illusioni, equivoci. Buona parte del mondo politico è convinto che prima o poi toccherà proprio a lui di aprire al Pci, mentre Gardner in realtà è solo in attesa di una direttiva ufficiale che fissi il più deciso diniego all’ingresso dei comunisti nel governo lungo la linea invero acrobatica della non-indifferenza e non-interferenza. Di qui, probabilmente, il lavorio senza requie degli italiani attorno a via Veneto, le loro speranze, le loro paure, i tentativi anche disperati di forzare non solo la gabbia della Guerra Fredda, ma anche il freddo e perfino signorile anticomunismo dell’ambasciatore. Ed ecco dunque l’incessante zig zag fanfaniano, la brusca asprezza di Donat Cattin, le generose bizze di Pertini che fa una scenata a Vance (mentre un’altra ne risparmia a Gardner Antonio Maccanico con un ”calcetto” sotto il tavolo). Ecco Ugo La Malfa che, rassegnato nel suo sconforto, sostiene la necessità di imbarcare il Pci, ma se questo non dovesse rispettare le regole ”avremmo potuto mettere in azione i carri armati”. Ed ecco invece con quale benevola malizia Andreotti commenta una lunga tirata contro le Botteghe Oscure: ”Beh, non pretenderà mica che smettano di fare i comunisti, vero?”. Ecco infine Craxi che riceve l’ambasciatore sotto un poster di Allende, ma poi finisce per bussare a quattrini. E insiste: ”Non c’è bisogno di dare i soldi direttamente a me; possono essere dati a una delle nostre riviste, come Critica sociale”. Si tratta di retroscena quasi sempre illuminanti nelle loro complesse traiettorie. Grosso modo, i dc cercano di lavorarsi Gardner suggerendogli di chiudere al Pci, ma con l’obiettivo reale di aprire, prima o poi; così come, in modo abbastanza simmetrico, almeno in una prima fase il Psi craxiano fa finta di sostenere una linea di apertura, scommettendo in verità sull’imminente chiusura. In qualche caso - ad esempio quando la Cia in previsione di una visita di Carter pretende di compiere una ”bonifica” di eventuali microspie dal Quirinale; o quando l’ambasciatore, senza che Pertini lo sappia, si permette di chiedere che non venga invitato Berlinguer - il racconto è tale da suscitare nel lettore italiano, anche filo-occidentale, un certo imbarazzo e magari pure la speranza di un qualche dubbio interpretativo. La piacevolezza letteraria della testimonianza, come nota anche Arrigo Levi nella prefezione, è fuor di dubbio, senza nulla togliere al suo valore storico-documentario. Il punto è che di quegli anni, di quella storia drammatica, di quel gioco intricato, è lo stesso Gardner a riconoscere di essere stato parte in causa, anzi ”uno dei principali protagonisti”. E tuttavia dire ”protagonista” è forse ancora dire poco. O non dire tutto, perché egli veramente fu qualcosa di più. Un elegante dominatore, un messo brillantemente imperiale, un signore educato ma inflessibile nelle cui mani le vicende del secolo scorso avevano deposto armi, poteri e responsabilità a loro modo determinanti. E se certo la storia gli ha dato ragione, è anche vero che più si allunga nel tempo, più si purifica, più si contempla da lontano e più in fondo si capisce» (Filippo Ceccarelli, ”La Stampa” 14/9/2004). «L’ultimo ambasciatore della Guerra Fredda, quando il Pci era ancora così legato all’Unione Sovietica. Rappresentava un governo democratico, il quale vedeva di buon occhio l’appoggio silenzioso dei comunisti alla Dc, ma non altrettanto l’ingresso del più grande partito d’opposizione nel governo: ”Proprio Carter mi ribadì l’auspicio che il partito comunista non entrasse nel governo, ma la linea era davvero quella non interferire, seppur sempre senza disinteressarsi. C’era un forte movimento innovativo e di sinistra in Italia, finalmente si incominciava a dare i visti a quegli intellettuali, si chiariva che non cambiavamo atteggiamento se cambiavano gli atteggiamenti politici”. Berlinguer in quel momento ”era ancora legato all’Urss e al marxismo. Rimasi deluso quando lui stesso e altri dirigenti dicevano che c’era la Cia dietro alle Brigate Rosse”. Ed ecco Aldo Moro: ”Per anni c’è stato il mito del complotto per il suo assassinio, spazzato poi via dal suo memoriale di prigioniero. Il rapporto con lui era amichevole. Lui escludeva un’alleanza politica: voleva includere i comunisti in una maggioranza senza posti di governo, senza ministeri. In realtà voleva logorarli”. Farsi sorreggere, logorarli e poi arrivare alla proposta finale: andiamo a elezioni, volete noi o loro. Incontri con gli esponenti comunisti ce n’erano. L’interlocutore prediletto era Giorgio Napolitano: ”Era aperto, evoluto verso la socialdemocrazia (al contrario di Pecchioli)”. [...] il ritratto di quel leader timido, un po’ imbarazzato, che si chiamava Enrico Berlinguer. Dice Gardner: ”Mi ricordo una sera al Quirinale, una cena dove c’era anche mia figlia Nina [...] Non sapevo come metterlo a suo agio, allora gli presentai Nina e gli spiegai che stava studiando le origini del Pci dopo il congresso di Livorno. Fu un dialogo informale. Ma se ne andò dopo due frasi”. Saltano fuori gli aneddoti. Carter è in campagna elettorale contro Reagan. Pertini invita tutti a un ricevimento. All’ambasciatore americano arriva un invito preciso: ”Evitare qualsiasi occasione di fotografia dove si vedano insieme Carter e Berlinguer”. Allora si tasta il terreno, si domanda, e dal Quirinale confermano: ”Pertini è democratico, Berlinguer fa parte dell’arco democratico e quindi è invitato”. Ma dietro questo ritratto di un’America guidata dai democratici, però in difficoltà con i filosovietici italiani, Gardner ci tiene a tratteggiare un profilo del Carter con il quale ha a lungo collaborato da un luogo delicato come l’ambasciata italiana: ”L’hanno ritenuto ingenuo e debole, eppure si sono visti risultati significativi e duraturi. Fu il primo che sulla questione israeliana disse che meritavano una loro patria vera e ben ferma. Aprì alla Cina, si occupò di Panama. E poi tutta la questione degli Euromissili, condotta con l’Italia”. C’è una serena nostalgia di quegli anni di confine - confine di epoche - vissuti da un osservatorio particolare come via Veneto a Roma: ”La vera sfortuna di Carter fu che aveva come interlocutore Breznev anziché Gorbaciov”. [...]» (Marco Neirotti, ”La Stampa” 21/9/2004).