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 2004  settembre 20 Lunedì calendario

Hopkins Bernard

• Philadelphia (Stati Uniti) 15 gennaio 1965. Ex pugile. Fu campione del mondo dei pesi medi • «Si fa chiamare ”The Executioner”, il boia, e alle conferenze stampa prima dei suoi match serve all’avversario ”l’ultimo pasto”. Una macabra tradizione, imparata forse nei cinque anni trascorsi in carcere, che pare produca devastanti effetti sulla psiche del nemico di giornata [...] per motivarsi non deve far altro che riavvolgere il film della sua vita: trenta volte davanti a un giudice di Philadelphia prima di aver compiuto i diciassette anni; due accoltellamenti che avevano rischiato di toglierlo dal mondo anzitempo durante l’adolescenza; e cinque anni di penitenziario per rapina a mano armata. Era lì che aveva infilato i guantoni per la prima volta seguendo i consigli di un ergastolano implicato in un omicidio. [...] campione indiscusso dei medi (Wba, Wbc, Ibf e quella Wbo [...] fa ancora la spesa al supermercato con i buoni sconto e pulisce personalmente i pavimenti di casa. Il suo manager è convinto che se avesse potuto studiare sarebbe diventato un grande dottore o un illustre avvocato. Invece è solo un pugile: uno coi fiocchi, però [...]» (Massimo Lopes Pegna, ”La Gazzetta dello Sport” 20/9/2004). «Come Monzon, Hagler e Leonard. [...]» (Riccardo Romani, ”Corriere della Sera” 20/9/2004). «[...] La sua storia non è l’edificante agiografia moralistica del passaggio dal male al bene per via della redenzione carceraria. Il carcere è il buco nero al quale ha sempre sentito di dover sfuggire, la porta d’accesso a un inferno che gli ha materialisticamente imposto di sopravvivere: ”Y4145, era il mio numero in galera. Me lo ricordo sempre. E me lo sono portato sul ring: infilato dentro i guantoni. Nel blocco D non c’erano armi; forse qualche coltello artigianale: ma dovevi farti rispettare, comunque. Anche da quelli più grossi”. [...] la detenzione al penitenziario di Graterford ce l’ha bene impressa nella mente. La rimembra sempre. Inelaborata. Segni indelebili di sofferenze che le battaglie sul ring non gli hanno viceversa lasciato sul viso. Quelle che fanno male sono le cicatrici che non si vedono. A difendersi a pugni dai più grossi, invece, aveva dovuto imparare sulle strade della periferia di Philadelphia dove gironzolava già a 11-12 anni. In una cornice riempita di disagi: la fuga da un padre ubriacone, il fratello morto in carcere, il cattivo esempio dei quelli più grandi, spacciatori o lenoni. Più volte ha ricordato che se non avesse incrociato i guantoni avrebbe fatto una brutta fine. Per assenza di alternative: quando fu scarcerato trovò lavoro come lavapiatti. Non aveva di che vivere. Decise di mettere a frutto gli insegnamenti di Smokey Wilson, il suo trainer dietro le sbarre. Uno dei pochi, assieme alla madre, al quale Hopkins riconosce di averlo aiutato. La tecnica è ancora approssimativa quando nell’88 perde il suo primo combattimento da professionista. Rimarrà però un episodio unico fino a Roy Jones: ha percorso la scalata ai vertici dello sport con la fredda efficacia e il killing instinct che ha appreso in carcere assieme alle lezioni di boxe impartite da Wilson. Con quel cinico bagaglio di mors tua, vita mea che gli è valso il soprannome di Executioner. Da quando si guadagna da vivere con la boxe ha adottato una autodisciplina ferrea, rigida, ossessiva come fosse un samurai. Niente fumo alcool mondanità, stravaganze o eccessi. Hopkins è maestro di concentrazione. Combatte quasi meccanicamente mosso da un tropismo al quale lo spingono i traumi di Philadelphia. E’ così che demolì Felix Trinidad, altro nome carismatico della categoria, nel 2001. E’ così che è rimasto campione del mondo, imbattuto da 12 anni. [...]» (Marco Perisse, ”il manifesto” 23/2/2005).