Varie, 20 settembre 2004
ACCARDI Carla
ACCARDI Carla Trapani 9 ottobre 1924. Pittrice • «Lo spirito dell’Accardi: avventuroso, alieno dal guardarsi alle spalle e proiettato, sempre, verso una frontiera ulteriore, verso un domani da conquistare, verso un passo che possa confermare la sua vocazione, tante volte dichiarata, di “stare a fianco della contemporaneità”, di amarla e interpretarla nel suo farsi, nel suo mutare, rischiando ogni volta qualcosa, mettendo in gioco ogni volta il patrimonio già acquisito. [...] un infinito repertorio del suo segno, raccolto sul povero supporto della carta [...] come era stato al cuore degli anni Cinquanta - in bianco e nero; di quei suoi segni che le sono stati compagni per oltre mezzo secolo. Nei quali - dapprima sulla scorta di Capogrossi, ma poi presto liberandosi da quella lezione - Accardi ha immesso tutto lo slancio di un animo che ha inteso aggregare sulla pagina fantasie e “figure” inattese, sconosciute, irragionevoli. Segni che, rispetto al crampo aspro e monadico di Capogrossi, tesero presto, nel loro aggregarsi insieme, e nel cercar sorprese da quella loro unione, da quella sorta di danza che tutti assieme intrecciavano sulla superficie, costituirsi quasi in una famiglia di “elementi-segni”, come subito intese Michel Tapié, gran padre dell’informel francese, fautore fra fine anni Quaranta e avvio dei Cinquanta della nuova lingua dell’arte che prendeva luogo a Parigi. Tapié consegnò allora per la prima volta Accardi a quella platea internazionale che da quel punto in avanti l’avrebbe accolta: prima presentandone i Negativi alle storiche mostre “Individualités d’aujourd´hui”, nel ’55, e Structures en devenir, l’anno seguente, poi registrando il progressivo abbandono dell’Accardi della dialettica secca del bianco e nero per accendere “i valori assoluti di altri colori [attraverso i quali] mi propongo di assorbire in modo completo le facoltà percettive” di chi guarda. Vennero allora prima un rosso di fiamma, poi gli azzurri e i viola, i verdi e gli aranci a saturare i segni e i nuovi ritmi ai quali le loro imprevedute assise s’abbandonavano, ventilati sulla pagina pittorica come da un´improvvisa folata di vento. Fintanto che quei segni non vollero staccarsi dalla tela dove giacevano, e prendere a muoversi più liberi nell´ambiente: si scrissero allora su rotoli, o su coni di sicofoil, una pellicola trasparente e leggera capace di materializzare i colori nello spazio, lasciandoli come sospesi nel nulla. Venne così la grande Tenda, e poi l’Ambiente arancio, col pavimento tutto tappezzato dai segni colorati, ed altre opere che allora, semmai, progettò senza eseguirle [...]» (Fabrizio D’Amico, “la Repubblica” 20/9/2004) • «[...] Il dato fondamentale e costante della pittura di Accardi è la conformazione bidimensionale dello spazio, lo sbarramento di ogni profondità prospettica e nello stesso tempo una mancanza di spessore materico, che invece accompagna lo sviluppo, simultaneo all’astrattismo, dell’informale. Lo spazio bidimensionale porta la pittura in uno stato di pura visibilità, in una condizione lampante e specifica, regolata da norme tutte poggianti sul dato ottico percettivo, senza sprofondamenti illusivi o anche rimandi esterni all’immagine. Accardi regola lo spazio pittorico in maniera da esibire la struttura stessa della pittura, fatta di un supporto, di una superficie e di un reticolo di segni. L’assenza di profondità porta i segni in primo piano, sulla stessa linea di orizzonte su cui è disposta la dimensione spaziale, la bidimensionalità appunto. Ma lo spazio non è una dimensione quantitativamente inerte, una misura statica o un puro contenitore. Piuttosto in questo caso si configura come campo, un sistema mobile di relazioni giocate sulla istantaneità dei segni. La nozione di campo, nella sua attendibilità scientifica, permette una fluttuazione dello spazio, un respiro della superficie che si distribuisce con una mobilità interna a seconda della dinamica, dell’accostamento e della disseminazione dei segni. Essi vibrano in una dimensione che oscilla senza che sia possibile indicare un centro e una periferia, che avrebbero bisogno di una staticità definitoria. La bidimensionalità permette al campo di scorrere continuamente nella potenzialità dei nessi, nella loro flessibilità formale. Accardi asseconda dunque la mobile nozione di campo, azzerando la profondità spaziale e portando il linguaggio adoperato nella condizione proliferante di uno stato organico, dove il segno si attorciglia, si snoda, si sposta fuori da ogni paralizzante geometria. Ora non esiste il vicino e il lontano, il fondo e il primo piano ma una compenetrazione simultanea dell’insieme. L’azzeramento avviene attraverso l’introduzione di un colore, il nero, che permette allo spazio di presentarsi secondo i caratteri dell’uniformità. Il nero è una connotazione di uno spazio che non vuole diventare protagonista della rappresentazione, semmai spingerla verso un’integrazione ottico-percettiva con il sistema dei segni che l’attraversano. Essi portano il colore bianco, non come contrasto, ma come tessitura d’integrazione. L’intreccio del bianco dei segni con il nero della superficie di fondo regola l’immagine, che acquista l’ambiguità di un ritmo dove non è possibile stabilire se il nero è la risultante dei contorni del bianco oppure se il bianco dipende dal percorso discontinuo del nero. L’ambiguità della visione è data dal ritmo organico dei segni che seguono un movimento imprevedibile e nello stesso tempo costante. La polarità del movimento è regolata da una doppia tensione: la ripetizione e la differenza. Attraverso la prima l’artista stabilisce una sorta di matrice generante il segno che possiede una struttura di fondo che lo ripete. Attraverso la seconda il segno prolifera se stesso e si modifica secondo una dinamica organica che rimanda al ritmo di crescita biologica della natura. Un movimento a togliere regola la mano dell’artista e anche il movimento della contemplazione dell’opera che si presenta nell’ambiguità di un intreccio cromatico, da cui non è dato cogliere se non la continua intersecazione e anche il sospetto che i segni siano una risultante di un ritaglio dello spazio e lo spazio la conseguenza di un percorso irregolare dei segni. Dunque la stessa contemplazione è regolata da questo movimento a togliere, dalla sensazione instabile di un continuo attraversamento dei due elementi che toglie loro unità ed interezza. Ma il togliere non spaventa Accardi, perché significa anche un movimento di sottrazione che produce una maggiore intensità alla parte occultata e sottratta anche allo sguardo. Togliere significa anche memorizzare e accumulare l’idea di uno spessore sottratto alla superficie. Perché la pittura ha necessariamente il carattere di uno splendente superficialismo, che non significa superficialità, bensì accettare il carattere specifico e strutturale della pittura che, per definizione storica e spirito laico, tende a superare l’illusionismo prospettico. Allora diventa lampante il rimando a Matisse e all’art nouveau, alla loro attitudine di operare sempre attraverso superfici felici e arrendevoli, mediante un disegno che si aggroviglia ma senza creare spessori o gonfiori, sempre sotto l´impulso di restituire il senso di un flusso aperto ed inarrestabile. Il togliere non presuppone una perdita definitiva, bensì una momentanea sottrazione, una discontinuità della presenza segnica, che ribadisce la qualità specifica della nozione di campo, presa nell’accezione di un suo continuo funzionamento dinamico. Il segno appare e scompare, così come lo spazio si forma e si sfalda, si condensa e si slabbra, sempre nella sua consistenza bidimensionale. Il colore nero produce un’uniformità e anche un assorbimento del ritmo bianco, che è il risultato di una sorta di assedio del segno verso se stesso. E qui Carla Accardi incontra Lucio Fontana» (Achille Bonito Oliva, “la Repubblica” 41/1/2007).