Varie, 17 settembre 2004
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RABONI Giovani Milano 22 gennaio 1932, Parma 16 settembre 2004. Poeta • «I critici, subito e spesso, usarono, per le sue raccolte di versi, la parola ”romanzo”
RABONI Giovani Milano 22 gennaio 1932, Parma 16 settembre 2004. Poeta • «I critici, subito e spesso, usarono, per le sue raccolte di versi, la parola ”romanzo”. C’era, nella poesia di Raboni, una vocazione al realismo e un’evidenza lancinante degli oggetti (’Lo chiamavano, credo, fronte interno / far la fila per ore per avere / quattro patate congelate e nere”), ma solo con grande disagio veniva collegata a una ”linea lombarda”. Più utile infatti risultava seguire i suoi percorsi francesi, le traduzioni (Baudelaire, Apollinaire, Proust), la sua critica, certi improvvisi versi in lingua: lo spaesamento della cultura francese - la clarté, ma non solo - per mostrare il lato allucinato e instabile di quell´inclinazione alle cose, e poi al chiuso dei sentimenti. A cominciare dal Parler de loin, ou bien se taire di La Fontaine, epigrafe dei suoi primi versi. Prenderla alla lontana: ogni riferimento a persone o cose reali da prendersi con beneficio d’inventario. La lontananza dell’ironia era ”nelle giunture dello schema”, e questo veniva a Raboni da Baudelaire, il poeta tradotto e ritradotto per cinque lustri, sempre avvicinandosi a quella implacabile perfezione del verso con cui Baudelaire stralunava la violenza grottesca dei temi. Su quell’arte della dissonanza, Raboni interveniva con una visione critica che era sempre fondata sull’’umida officina” dell’esperienza, del lavoro materiale sulle parole e i ritmi. Di Baudelaire segnalava perciò ”l’alleanza tra poesia e prosa”; e ci voleva la sua sapienza di ”romanziere di versi” per applicare a Baudelaire l’illuminante termine ”prosa” - passione della città moderna e dei suoi abitanti, mostri strazianti e ridicoli. Raboni confessava di aver proiettato sulla traduzione di Baudelaire qualche preoccupazione personale: la ”normalizzazione metrica”, il rientro cioè nelle forme alte e tradizionali del verso. La forma, sempre più regolare, dunque, per ”prenderla alla lontana”, per affrontare i casi e i rischi dell’etica (’comunista - talismano / arrugginita reliquia”) e quelli, ben altrimenti gravi, dei sentimenti (’finché vita non vi separi”). Aveva voluto affrontare, in campo morale, il rompicapo critico di tutti i tempi, il caso Céline. Dichiarava, con la certezza che gli veniva dal mestiere, l’adesione estetica alle opere dell’obbrobrio antisemita di Céline. Ma lo spiegava, splendidamente, con la vocazione di Céline a farsi rifiutare, a spingere la furia contro l’uomo oltre i limiti sopportabili. E si divertiva con Hugo, il cui ”torto” gli sembrava così gigantesco da non fare ombra, ma corpo col suo genio. Al confronto, la ”sordina” - attenuazione, reticenza e levigatezza - che Racine impone ai deliri dei suoi personaggi gli sembrava alla fine intercapedine cerimoniale, strisciante decoro di corte. ”Sparire: un giorno o l’altro bisogna / pur cominciare”. Di tutti i canzonieri di Raboni, quello della morte è forse il più profondo e costante. Per questo aveva voluto tradurre la Recherche di Proust, atletica, immane tattica per prendersi, e omeopaticamente curare, il virus dell’oblio» (Daria Galateria, ”la Repubblica” 17/9/2004). «Il libro di Giovanni Raboni, a raccogliere in uno tutti i suoi versi, si apre con Notizia, del 1955: ”Solo qualche parola, / solo una notizia sul rovescio del conto / sbagliato dal padrone. / Forse è tardi, può darsi che la ruota / giri troppo in fretta perché resti qualcosa: / occhi squartati, teste di cavallo, / bei tempi di Guernica. Qui i frantumi diventano poltiglia. / E anch’io che ti scrivo / da questo luogo trasfigurato / non ho frasi da dirti, non ho / voce per questa fede che mi resta, / per i fiaschi simmetrici, le sedie / di paglia ortogonali, / non ho più vista o certezza, è come / se di colpo mi fosse scivolata / la penna dalla mano / e scrivessi col gomito o col naso”. I critici potrebbero trovare in questi versi scritti da un poeta di ventidue anni odor di Montale, odor di Sereni. Forse li derubricherebbero da qualsiasi catalogo perché non degni di nota. Sbaglierebbero. C’è in essi la cellula armonica di tutta la poesia a venire di Raboni, di quell’armonia che è poi significato e senso. [...] La sua coscienza di poeta lo portava per esempio a sostenere che, più del romanzo, la poesia in Italia riusciva ormai a rappresentare l’angoscia del nostro vissuto. [...] In definitiva è stato un poeta che ha offerto sempre i propri contenuti in un modo diretto, esplicito: con lui potevi starci o no, ma non potevi sottrarti al peso scandito del suo linguaggio. ”Ricordo troppe cose dell’Italia. / Ricordo Pasolini / quando parlava di quant’era bella / ai tempi del fascismo. / Cercavo di capirlo, e qualche volta / (impazzava, ricordo, / il devastante ballo del miracolo) / mi è sembrato di riuscirci. /... Ma ricordo anche lo sgomento, / l’amarezza, il disgusto / nella voce di Paolo Volponi / appena si seppero i risultati / delle elezioni del 1994...”. La poesia può dire di queste cose, poiché è un modo estremo di vivere la vita. E la storia, ritrovata a ”barlumi”, nel suo spietato solfeggio, è poi la nostra vita. Un tale poeta è stato Giovanni Raboni, compagno distante e vicino» (Enzo Siciliano, ”la Repubblica” 17/9/2004).