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 2004  settembre 15 Mercoledì calendario

QANOONI Yunus Kabul (Afghanistan) 1957 • «Barbetta e occhiali da intellettuale, non è lo stereotipo del signore della guerra afghano, tutto azione e istinto, ed è l’uomo della trattativa alla Conferenza di Bonn sul futuro di Kabul

QANOONI Yunus Kabul (Afghanistan) 1957 • «Barbetta e occhiali da intellettuale, non è lo stereotipo del signore della guerra afghano, tutto azione e istinto, ed è l’uomo della trattativa alla Conferenza di Bonn sul futuro di Kabul. Si appoggia a un bastone con l’impugnatura in argento, unico vezzo, perché zoppica a causa di un attentato degli estremisti islamici di Gulbuddin Hekmatiar, che piazzarono una mina sotto la sua jeep, quando i mujaheddin governavano a Kabul prima dell’arrivo dei talebani. Qanooni è l’eminenza grigia che con un po’ di fortuna potrebbe riuscire a traghettare il paese fuori dall’incubo di un conflitto lungo 23 anni. Vederlo alla Conferenza in giacca e cravatta fa sorridere chi lo conosce: in Afghanistan veste spartanamente con un giaccone liso che fa parte del bagaglio dei suoi ricordi. Deve averne tanti poiché, dopo la laurea all’università di Kabul, raggiunge nella valle del Panjsher il comandante Ahmad Shah Massoud. Al suo fianco impara a svolgere i compiti più delicati a cominciare dal tenere i difficili rapporti con l’Isi, il servizio segreto militare pakistano. Durante l’invasione sovietica degli anni 80, tratta l’invio di denaro, armi e munizioni americani, via Islamabad, ai mujaheddin. Il ”leone del Panjsher” lo promuove a portavoce e responsabile politico della Shura i qomandanan, un consiglio di comandanti che nel 1987-88 si prepara al ritiro dell’Armata rossa. Quando i mujaheddin conquistano Kabul, Qanooni diventa portavoce del governo, in realtà è già l’eminenza grigia della linea politica dei moderati. Massoud accetta di farsi sostituire al dicastero della Difesa dal suo discepolo per rendere accettabile l’ingresso in un governo di coalizione a Hekmatiar, che con i suoi miliziani dell’Hezbi islami ha poi fatto sprofondare il paese nella guerra civile. La ruggine con i fondamentalisti è di quel periodo, quando Qanooni rischia di essere ucciso. Dopo il successo dei talebani, nel ’96, torna a tessere le fila della divisa opposizione agli integralisti, creando tutte le alleanze politico-militari tra Massoud, gli uzbeki, gli hazarà sciiti e alcuni gruppi pashtun. Ogni tanto il puzzle s’incrina con effetti disastrosi, che alla fine fanno spadroneggiare i talebani nel 90 per cento dell’Afghanistan. Ma Qanooni non cede. Il suo quartier generale, nei tempi bui e ora, è una bella casa-ufficio incastrata nella roccia all’imboccatura della valle del Panjsher. Si dice che lì abbiano dormito i primi consiglieri militari americani giunti in Afghanistan, dato che Qanooni è anche ministro dell’Interno del governo prima cacciato e ora ritornato a Kabul. Con i bombardamenti, Qanooni passa 14 ore al giorno a fare la spola tra i più riottosi alleati del Fronte unito, come Abdurrab Rasul Sayaf, un vecchio comandante fondamentalista, o il pashtum Haji Abdul Qadir. Poi stringe con l’ex re Zahir Shah, in esilio a Roma, il patto con la diaspora afghana sul futuro del paese. L’unico che non ha mai mostrato di amare molto è il presidente Bhuranuddin Rabbani, ancora riconosciuto come capo di Stato. Lo considera solo un vecchio leader, legato ad ambienti islamici retrivi, buono solo a ostacolare la rottura col passato. Con i giornalisti che andavano a trovarlo, da tempo aveva previsto tutto: la caduta di Mazar i Sharif, l’effetto domino nel Nord e infine la fuga dei talebani dalla capitale. L’unica promessa da marinaio è stata quella di non entrare con il grosso delle truppe a Kabul, ma poi spiegherà, da regista dell’operazione, che non si poteva lasciare la città nell’anarchia. Nella prima intervista da uomo forte dei mujaheddin nella capitale sostiene di sognare un nuovo Afghanistan, rispettoso dei diritti umani e delle donne, di essere pronto a condividere il potere con un governo di unità nazionale rappresentativo di tutte le etnie, di accettare la presenza di inviati dell’Onu, ma solo in qualità di osservatori e di voler consegnare bin Laden alle Nazioni Unite, non agli americani. [...] Solo lui, con l’esperienza e l’abilità levantina che ha, potrebbe riuscire a mettere d’accordo i clan del paese. Accetta un ampio governo di coalizione, con l’obiettivo di convocare la Loya Jirga, l’assemblea tradizionale afghana, in marzo per instaurare un vero esecutivo. Dice di volere ’un nuovo, moderno Afghanistan che esca per sempre dall’era del buio» (’Il Foglio”, 29/11/2001).