15 settembre 2004
PRUZZO Roberto.
PRUZZO Roberto. Nato a Crocefieschi (Genova) il primo aprile 1955. Calciatore. Con la Roma ha vinto lo scudetto 1982/1983, vicecampione d’Europa nel 1983/1984. Capocannoniere della serie A nel 1980/1981, 1981/1982, 1985/1986. Sei presenze in nazionale. Lanciato dal Genoa, ha chiuso la carriera nella Fiorentina. «Centravanti di sfondamento, poco incline alla manovra, è micidiale nel colpo di testa. [...] il suo talento resta imprigionato nei confini italiani: la nazionale lo ospita assai di rado, il ct Bearzot gli antepone una concorrenza molto vasta [...] Mestierante del gol, anche quando la pancetta comincia a lievitare [...]» (Dizionario del Calcio Italiani, a cura di Marco Sappino, Baldini&Castoldi 2000). Più facile segnare oggi o ai suoi tempi? «Non c’è paragone [...] Ai miei tempi, per esempio, non c’erano mille telecamere in campo e i difensori ti menavano dal primo all’ultimo minuto... [...] Oggi, ad esempio, le partite durano circa cento minuti: quando giocavo io, al novantesimo tutti a casa. E ve ne dico un’altra: ora non si può passare il pallone al portiere, mentre ai miei tempi si perdevano ore intere con questi passaggi all’indietro e un attaccante non vedeva un pallone... Senza dimenticare che quando giocavo io i difensori erano ancora difensori. Ora la razza si è un po’ imbastardita: bravi con i piedi, bravi tatticamente ma scarsi nell’uno contro uno [...]» (Mimmo Ferretti, ”Il Messaggero” 2/12/2004). «I tifosi del Genoa esagerarono subito senza curarsi delle somiglianze e lui che non aveva mai giocato in un campo regolamentare in vita sua,divenne in poco tempo il Pelè di Marassi, Roberto Pruzzo, ”O Rey di Crocefieschi”. ”Non pensavo di diventare un calciatore, giocavo per divertimento e l’idea di firmare un contratto mi convinceva poco, il presidente Fossati faticò a convincermi. Poi tutto cominciò a correre, mi trovai in prima squadra e la passione diventò un lavoro”. Col Genoa furono meraviglie e drammi sportivi. Gol nel derby e retrocessioni sotto la pioggia per un un rigore tirato tra le braccia del portiere. Pruzzo non ebbe paura di sbagliare, si rialzò e nel ’78, per 3 miliardi passò alla Roma di Anzalone. ”Mi volevano Juventus e Milan, Moggi però arrivò prima. Non sbagliai perché a Roma mi trovai subito bene, anche se la Roma era una squadra di secondo piano che aveva faticato a salvarsi. Iniziammo lentamente a costruire qualcosa e due anni dopo ci giocammo il campionato contro la Juventus”. A Torino, Turone, non ebbe soddisfazione. Gol annullato, sogno svanito. ”Eravamo forti ma non abbastanza, ci provammo però. Quel giorno e quella rabbia me li ricordo bene, l’assist per il suo colpo di testa lo feci io. Anche all’epoca vincevano sempre le solite due, tre squadre ed entrare in quella cerchia era difficile. Ci riuscimmo perché eravamo un gruppo di amici”. In grado di far delirare Roma nell’estate dell’83. ”Con Liedholm, che è una persona meravigliosa, avevo un grandissimo rapporto. C’era quella fiducia reciproca che non ha bisogno delle parole. Il giorno dello scudetto a Genova, con diecimila persone in campo, nonostante la sua freddezza lo vidi veramente felice. La gente lo sollevava in aria, volevano portarselo a casa. Entrammo nello spogliatoio praticamente nudi”. Il rapporto con Bearzot era diverso. Peggiore. 106 gol con la Roma gli consentirono in nazionale soltanto rade apparizioni. Simili a quella generosamente interpretata al cinema con Terence Hill, in Don Camillo. Pruzzo non ha dimenticato niente. ”Ho avuto delle occasioni e non le ho sapute sfruttare. Si tratta di momenti da cogliere, come accade spesso nella vita. Il rammarico c’è, le potenzialità le avevo tutte. Ero forte”. Roma invece lo amò molto. ”Dal campo vedevo questo muro parlante che veniva verso di me e poi tornava indietro, la mia curva. Quando giocavo sotto la Sud mi riusciva tutto più facile”. Quasi sempre. I cinque gol in Roma-Avellino, 5-1, accompagnato nella storia da tipi come Meazza e Gabetto, li segnò dall’altra parte. ”Successe l’immaginaginabile: i gol mi venivano con una facilità assoluta, avrei potuto farne anche di più ma non ho solo ricordi piacevoli di quegli anni. Roma-Liverpool, ad esempio. Sorprendentemente oggi il rimpianto per quella Coppa dei Campioni è più forte che in giovinezza. Sarebbe stato meglio essere eliminati in semifinale che subire una delusione così davanti ai nostri tifosi”. ”You’ll never walk alone” cantata a squarciagola dagli inglesi e il resto dell’Olimpico in silenzio. ”Pagammo il dover giocare una partita così importante a Roma e l’aspettativa della città ci schiacciò, con la testa non c’eravamo”. Tipico psicodramma romano, simile a quello andato in scena col Lecce già retrocesso dell’odiato Fascetti, il 20 aprile dell’86, al termine di un’incredibile rimonta sulla Juve. ”Un incubo. Se ne sono dette tante su quella partita ma la verità è che sottovalutammo alcuni segnali e pensammo fosse tutto troppo facile. Quando ci rendemmo conto che stavamo buttando il campionato provammo a recuperare. Troppo tardi. Ci perseguitò anche una sfiga micidiale: loro fecero tre tiri e tre gol, noi tirammo in porta trenta volte ma il loro portiere di riserva parò tutto”. Un paio d’anni dopo, Roma divenne solo una città dove abitare. Il calciatore Pruzzo si trasferì a Firenze, per non giocare quasi mai e segnare un unico gol, proprio alla Roma, nello spareggio Uefa di Perugia. ”Il giorno dell’addio alla Roma mi sono commosso. Avevo la consapevolezza piena che una fase della vita si stava chiudendo per sempre. Segnare quel gol mi regalò un misto di dispiacere e orgoglio perché pur danneggiando la squadra della mia vita, dimostrava che potevo ancora dire la mia. Furono il mio ultimo gol e la mia ultima partita, in ogni caso. Non sapevo come avrebbero reagito i romani, poi scoprii con sollievo che mi avevano perdonato. Ancora oggi c’è un affetto nei miei confronti che non riesco del tutto a spiegarmi [...] Risento della mia genovesità ma non credo di essere un introverso. Penso di dovere a questa fama il fatto che tra il campo e la vita privata ho messo fin da giovane una barriera invalicabile. Negli spogliatoi in cui sono stato la mia voce si sentiva forte però [...] Oggi l’approccio al calcio è diverso da quello di un tempo. L’ottica è quella di far diventare il gioco uno strumento per arrivare ai soldi, alle donne o alle macchine. Non è il modo corretto per avvicinarsi allo sport. Io sentivo di fare un mestiere che aveva la stessa dignità di quello del barista, dell’imbianchino o dell’edicolante. Non mi sentivo un eletto. Facevo bene quella cosa e la trasformai in lavoro ma era un’altra Italia, c’erano uomini di cui si sente la mancanza [...]» (Malcom Pagani, ”il manifesto” 2/4/2006).