Varie, 15 settembre 2004
SCOLA Angelo
SCOLA Angelo Malgrate (Milano) 7 novembre 1941. Cardinale. Dal 2011 arcivescovo di Milano. Già patriarca di Venezia. Ordinato sacerdote nel 1970, dal 1982 è docente di antropologia teologica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II (GPII) per Studi su matrimonio e famiglia della Pontificia università lateranense (Pul). Vescovo di Grosseto dal 1991, diviene nel 1995 rettore magnifico della Pul e, insieme, preside del GPII. Diverse le opere di carattere scientifico pubblicate, svariati i libri, circa 120 i contributi scientifici in opere collettive e in riviste teologiche e filosofiche internazionali. Patriarca di Venezia dal 2002 e successivamente presidente della Conferenza episcopale triveneta, è stato creato cardinale da Giovanni Paolo II il 28 settembre 2003 • «“Interessante questa teoria sui Promessi Sposi: di chi è?” , gli chiese il professore all’esame di maturità. “Del noto studioso Angelo Scola”, rispose lui, con un sorriso. E dentro la battuta c’era tutto: una preparazione di ferro, la fierezza di rivendicare una visione originale, l’autoironia di chi conosce i propri limiti, la gioia di giocare con la cultura. Fino alla provocazione. Come quando a Giancarlo Zizola che gli chiedeva quale fosse il suo colore preferito, rispose l’ultimo che verrebbe in mente a un uomo ricco di forti passioni, principi saldi e buone letture quale lui è: “Il grigio”. E spiegò: “Lei sa quante sfumature di grigio può dipingere su un paesaggio uno specchio di lago? Da ragazzo ne ho contate otto o nove. Per questo noi lacustri siamo tentati di essere almeno un poco crepuscolari, se non romantici”. Gli amici, che l’hanno visto con le camicie a quadri marron da alpinista e poi con la tonaca nera da prete e il clergyman cenere da docente e lo zucchetto rosso da vescovo e infine le mantelle purpuree da cardinale, ammiccano che starebbe bene in bianco. Gli osservatori attenti ricordano come Wojtyla lo stimava tanto da volerlo prima rettore alla Lateranense, poi patriarca a Venezia e delegato alla relazione introduttiva al prossimo sinodo, così come lui era stato delegato da Paolo VI. [...] Nato nel novembre ’41 a Malgrate, sulla riva opposta a Lecco del ramo manzoniano del Lago di Como, Angelo Scola dice d’essere “orgoglioso di venir da una famiglia poverissima: i miei hanno sempre vissuto in un appartamentino nella vecchia corte di una grande fattoria di non più di 35 metri quadrati dove c’era un piccolo ambiente con una stufa economica che fungeva da cucina, da salotto e da tutto. Poi si entrava nella camera da letto dei miei e da lì si passava in un bugigattolo dove dormivamo io e mio fratello”. Papà Carlo faceva il camionista e ciò, come ha raccontato a Stefano Lorenzetto, fu “decisivo”: “Mi ha dato il senso del viaggio e il gusto del lavoro. Guidava un Fiat 626 che faceva al massimo 37 chilometri l’ora. Allora non c’era il servosterzo, doveva girare le ruote a forza di braccia. Gli erano venuti due muscoli così. Portò fino a Messina il prototipo del palo per l’illuminazione dello Stretto, impiegando 17 giorni. Senza autostrade e senza telefono, non si sapeva mai quando sarebbe tornato”. Socialista nenniano, a differenza della mamma Regina che mandava i figli a distribuire il cattolico Resegone e rappresentava quella religiosità popolare delle terre lombarde dove “credere è come respirare, non occorrono tanti ragionamenti”, tornava tenendo nella tasca della giacca (“aveva un forte senso della sua dignità: se smetteva la tuta era sempre in giacca”) l’Avanti! e l’Unità : “La passione per il popolo l’ho presa da lui. Gli devo molto. Se fece studiare me e mio fratello fu perché quei giornali raccomandavano di mandare i figli a scuola. Si ammazzò di lavoro, per farci studiare”. Cresciuto dentro l’Azione Cattolica, laureato in filosofia alla “Cattolica”, presidente milanese della Fuci, animatore entusiasta di Comunione e liberazione, ordinato sacerdote nel luglio ’70, studente a Friburgo fino a ottenere un dottorato in Teologia, racconterà di avere avuto, su tutte, quattro stelle polari. La prima sono i genitori, che gli hanno trasmesso “la verità e la bellezza dell’amore nello sguardo del mio papà verso la mia mamma dopo 55 anni di matrimonio”. La seconda è don Luigi Giussani, al quale dedicherà nel 2004 un libro intitolato Un pensiero sorgivo. La terza è il teologo Hans Urs von Balthasar, col quale scrive un libro intervista dal titolo Vagliate ogni cosa, trattenete ciò che è buono. La quarta è Karol Wojtyla. Che più di chiunque altro, come dicevamo, scommette su di lui. Bollato spesso come “il patriarca ciellino” con quella diffidenza che una parte del mondo cattolico (per non dire delle sinistre) riserva al movimento fondato da don Giussani e soprattutto ad attività collaterali quali la Compagnia delle Opere, Scola vive l’etichetta con un misto di orgoglio, pazienza e amarezza. Orgoglio perché rivendica fino in fondo gli anni passati dentro il movimento, pazienza perché sa che non è facile scollarsi di dosso gli schemini riduttivi anche se da quando è vescovo si è chiamato fuori, amarezza perché l’etichetta rischia non solo di schiacciarlo tutto da una parte ma di riassumere in modo arbitrario, riduttivo e semplicistico, se non sempliciotto, un’esperienza umana e pastorale che è assai più ricca e complessa. Accolto a Venezia come un “foresto” estraneo alle “terre di San Marco”, Scola è riuscito in pochi anni a guadagnarsi stima, devozione e affetto. Ha bacchettato le storture del “modello Nordest” dove l’uomo rischia di essere solo “forza lavoro”. Conquistato gli intellettuali citando raffinati versi di Rilke e di Eliot. Aperto un dialogo coi giovani mostrandosi anche un gran navigatore di Internet (“meraviglioso, a usarlo bene”). Rilanciato i valori cattolici su morale, matrimonio o genetica in cui vede opportunità ma pure rischi “superiori all’atomica”. Fondato la rivista Oasis in italiano, arabo, inglese, francese e urdu (“O l’integrazione avviene in Europa o non so dove possa avvenire”) per il dialogo tra le religioni. Tenuto duro sul crocefisso a scuola e insieme sfidato i razzisti in nome del “meticciato di civiltà”: “Il popolo di Dio, diceva Paolo VI, è quasi ‘un’etnia sui generis’: una fusione di nazioni e popoli”. Guai, se ha paura» (Gian Antonio Stella, “Corriere della Sera” 10/4/2005).