Federico Ferrazza e Nicola Nosengo, Macchina del Tempo, settembre 2004 (n.9), 11 settembre 2004
Inutile girarci tanto attorno, noi esseri umani non siamo proprio tutti uguali. Certo, biologicamente parlando, apparteniamo tutti alla stessa specie, Homo sapiens sapiens
Inutile girarci tanto attorno, noi esseri umani non siamo proprio tutti uguali. Certo, biologicamente parlando, apparteniamo tutti alla stessa specie, Homo sapiens sapiens. E anche quei tratti fisici che in passato hanno dato adito a razzismi aberranti, come il colore della pelle, sappiamo bene che dal punto di vista genetico significano ben poco. No, il Dna è più o meno lo stesso per tutti, ma se invece che a quello, guardiamo ai comportamenti, viene veramente il dubbio che esistano almeno un paio di diverse sottospecie. Prendete i ricchi, per esempio. Non chi è solo ”molto benestante”, ma proprio i miliardari, quelli che hanno così tanti soldi da non sapere che farsene. Non avete mai avuto l’impressione che vengano da un altro pianeta? Che parlino, si muovano in modo diverso da ”noi”? Dopotutto, la ricchezza isola dagli altri individui in molti modi: i ricchi fanno parte di una comunità con codici, comportamenti, linguaggi e habitat tutti suoi, e in più tendono anche ad accoppiarsi tra loro. Ce n’è abbastanza per considerarlo il principio di una nuova specie! Sicuramente è di questa idea Richard Conniff, un giornalista del ”National Geographic” abituato a osservare il comportamento animale e ad avventurarsi negli scenari naturali più impervi, che un bel giorno si è messo a pensare che forse c’era un altro modo per scoprire mondi nuovi e sorprendenti. Ed è giunto alla conclusione che vale la pena di studiare il comportamento dei miliardari come si studia quello di alcune specie animali, perché forse ha qualcosa da dirci sulla fondamentale natura umana. E così, noleggiata una Ferrari, si è messo a frequentare ville e yacht per scoprire in cosa i miliardari sono diversi da noi. Ne è nato un volume di grande successo negli Stati Uniti, già tradotto in undici lingue e ora uscito anche in italiano: ”Storia naturale dei ricchi. Etologia dei miliardari” (Garzanti, euro 19,50). «Mi interessava soprattutto» spiega Conniff «cercare di spiegare in termini evolutivi alcuni aspetti del comportamento di chi è molto ricco. Capire cioè se schemi di comportamento nati quando gli esseri umani vivevano nella savana influenzino ancora i rapporti tra le classi sociali». Dal punto di vista evolutivo, a pensarci bene, la ricchezza è qualcosa di innaturale, è una peculiarità tutta umana. Tra gli animali ci sono alcuni esempi di accumulazione di grandi scorte di cibo per superare la stagione difficile, ma questo non crea mai differenze sociali: nelle api e nelle formiche, ad esempio tutto quanto viene accumulato viene distribuito equamente. Altri animali, come gli scoiattoli, accumulano grandi quantità di cibo, ma non sono animali sociali. Tra i primati non esiste però nulla che somigli alla ricchezza, e così deve essere stato per gli esseri umani fino alla comparsa dell’agricoltura, avvenuta circa diecimila anni fa. solo con la nascita dei campi coltivati che alcuni individui hanno avuto la possibilità di accumulare grandi quantità di cibo, e hanno cominciato a usarle come merce di scambio per procurarsi potere, partner sessuali e altri individui che lavorassero per loro. Per la precisione, ci ricorda Conniff, tutto cominciò probabilmente con i ceci: facili da immagazzinare, conservare e trasportare, si prestano bene al commercio e quindi furono probabilmente la prima moneta della storia. Insomma, nulla nell’evoluzione ci ha preparato alla ricchezza, e questo in parte spiega i comportamenti decisamente stravaganti dei miliardari. Tuttavia, accumulare ricchezze è prima di tutto un modo per dominare gli altri, per diventare ”capibranco”: e in questo senso, rientra in una tradizione molto antica nel mondo animale. In tutte le specie animali sociali, infatti, vi sono sempre regole molto precise per stabilire chi domina e chi è dominato. E anche oggi, ci conferma Conniff, si possono rintracciare nel comportamento dei ricchi precise analogie con quello degli animali dominanti. Le più vistose sono naturalmente negli atteggiamenti aggressivi. Anche se nessun miliardario azzanna i suoi rivali alla nuca per sottometterli come fa ad esempio un lupo! Il linguaggio bellicoso e il deliberato tentativo di annientare i rivali sono evidenti in magnati come Bill Gates, Rupert Murdoch, Ted Turner. Ma ancora più interessanti, dice Conniff, sono i modi scelti dai ricchi per ”dominare con le buone maniere”. Pensate per esempio alle grandi e sfarzose abitazioni, ai ricevimenti da favola, agli yacht e alle macchine sportive, ma più ancora alle grandi somme donate in beneficenza. Secondo Conniff, tutte queste manifestazioni sono trasposizioni umane e moderne di quel principio evolutivo descritto dal biologo israeliano Amotz Zahavi e noto come «principio dell’handicap». Il principio in questione spiega perché l’evoluzione abbia permesso la comparsa di tratti fisici palesemente svantaggiosi come ad esempio la coda del pavone, che sarà anche bella da vedere, ma è pesante, limita l’animale nei movimenti e come se non bastasse lo rende pure più visibile per i predatori. Come è possibile che la selezione naturale le abbia permesso di durare? Secondo Zahavi, la coda va considerata come un messaggio che il maschio manda alla femmina della sua stessa specie: «Sono così forte, e i miei geni sono così buoni, che riesco a sopravvivere persino con questo svantaggio», questo handicap appunto. Lo stesso principio guida anche comportamenti apparentemente assurdi, come quello delle gazzelle che, quando i leoni si avvicinano al loro branco, iniziano a saltare furiosamente verso l’alto. Un modo per comunicare chiaramente a chi di dovere di non essere il membro più debole del branco, e che sicuramente si spenderanno meno energie inseguendo qualcun altro. Secondo Richard Conniff, è esattamente lo stesso ”istinto” che si nasconde dietro alle grandi donazioni in beneficenza, alle feste sfarzose o a stravaganti e rischiose imprese come le avventure in mongolfiera del patron dell’etichetta musicale Virgin Records, Richard Branson (nel 1991 ci ha fatto il giro del mondo). Sono tutti richiami lanciati ai propri simili per far capire che si è molto più forti della media, tanto da potersi permettere di sprecare e rischiare. Lo sfoggio della propria ricchezza può raggiungere livelli davvero maniacali. Racconta Conniff: «Sono stato a casa di un miliardario che aveva fatto fortuna con una Internet company. Il suo esibizionismo era tale che aveva riempito il suo appartamento di Manhattan con tante minitelecamere che ti seguivano automaticamente quando ci passavi davanti, e trasmettevano tutto quanto avveniva in casa sul suo sito web personale. Ce n’era una persino in bagno, e la sua fidanzata, che ovviamente era bellissima, non sembrava molta entusiasta della cosa». Naturalmente, atteggiamenti come questo sono decisamente più comuni in quelli che vengono chiamati «nuovi ricchi», nuovi rispetto a chi si è ormai abituato all’idea di avere molti soldi. Anzi, il «ricco d’antica data» mostra spesso aperto disprezzo per chi appena fatti i soldi si compra magari una Rolls Royce e la usa per andare in giro in città. «Il problema» spiega Conniff «è che il parvenu cerca di far sapere a tutto il mondo di essere diventato ricco, mentre secondo il particolare codice di comportamento di questa sottospecie umana, l’homo sapiens pecuniosus, lo sfoggio dovrebbe rivolgersi soprattutto agli altri ricchi». Piuttosto della Rolls Royce, meglio quindi costosissime opere d’arte appese con nonchalance nel bagno degli ospiti, o bottiglie di vino di cui soltanto gli intenditori possono immaginare il prezzo. Secondo Conniff, ci sono poi importanti differenze tra i ricchi europei e quelli nati e vissuti negli Stati Uniti. I primi, forti anche della tradizione della nobiltà, cioè di una classe di individui così sicuri del proprio status sociale da avere meno bisogno di ribadirlo (ricordate il salto della gazzella? Se non ci sono leoni in giro, tanto vale risparmiarsi la fatica!), tendono a sfoggiare la propria ricchezza molto meno rispetto ai loro simili statunitensi. Le differenze tra i ricchi sono state studiate anche nel mondo dell’arte. «Per esempio nella storia della letteratura» dice Paolo Legrenzi, ordinario di Psicologia cognitiva all’Università di Venezia, «i ricchi sono stati divisi in due filoni. E tutti e due questi filoni sono stati descritti da due premi Nobel: Ernest Miller Hemingway (vinse nel 1954) e Gabriel García Márquez (1982). Lo scrittore statunitense diceva che «i ricchi sono come i poveri, solo che hanno più soldi». Il letterato colombiano, invece, che non si ritiene un miliardario, si descrive come «un povero con i soldi». Più o meno la stessa concezione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: l’autore de ”Il Gattopardo”, infatti, narrando dei ”suoi” ricchi, li racconta come persone che non solo hanno più soldi ma anche più problemi, e soprattutto problemi diversi dagli altri. Oggi, però, le cose sono un po’ cambiate rispetto ai tempi descritti nel ”Gattopardo”: la società è infatti più omogenea rispetto ai secoli precedenti. Il ricco, sostanzialmente, non ha (in proporzione, s’intende!) preoccupazioni diverse da quelle di una persona che ha uno stipendio nella media e che quindi non è ricco per niente. Questo concetto ha origine nella rivoluzione industriale che non ha colpito nello stesso momento tutti i Paesi occidentali. «In Italia» prosegue il dottor Legrenzi «come in tutti i Paesi dove la rivoluzione industriale è iniziata con qualche anno di ritardo, non esiste una vera e propria classe di ricchi, ma si parla di ”arricchiti”. Ovvero di persone che al massimo hanno alle proprie spalle una sola generazione di familiari ricchi. Miliardari, quindi, che hanno ancora memoria degli sforzi fatti per accumulare le loro ricchezze. In Gran Bretagna, il primo Paese a vivere davvero la rivoluzione industriale, esistono invece i veri ricchi, quelli che hanno nella loro famiglia almeno cinque o sei generazioni di miliardari alle spalle. Ecco perché non hanno memoria degli sforzi fatti per raggiungere la loro condizione e si dedicano a hobby ”strani” come collezionare farfalle». Attenzione, però: non è detto che quest’ultima condizione si riveli poi la migliore. Anzi, dobbiamo notare che è socialmente più accettato il ricco che lavora e si dà da fare piuttosto che il ”miliardario ereditario”, che riesce a vivere di rendita. Sotto gli occhi di tutti c’è un esempio, quello americano: il modello del self-made man, l’uomo ”che si è fatto da solo”. Ebbene, è chiaro che un ricco del genere è molto più apprezzato socialmente del ricco che è tale solo perché nato in una famiglia di miliardari. Se vogliamo azzardare un parallelo nel nostro Paese, in un certo senso è quello che sta succedendo negli ultimi anni nella politica dove, seguendo «il modello Berlusconi», molti deputati e onorevoli vengono apprezzati di più se sono lavoratori. Però questo è un modello che non è detto porti a nuove generazioni di ricchi. Una recente indagine, iniziata circa dieci anni fa e condotta dalla Fondazione Movimento Bambino (l’associazione creata dalla psicoterapeuta Maria Rita Parsi), ha già dimostrato come non sia così automatico per un «figlio di papà» ottenere lo stesso successo raggiunto dai genitori. Sui 102 figli di ricchi monitorati, tutti di età compresa tra i 21 e i 30 anni, circa il 55 per cento si è ritrovato con percorsi e lavori più modesti rispetto a quelli della famiglia di appartenenza. Soltanto il 10 per cento è riuscito con successo a eseguire il lavoro che già faceva il genitore famoso. E se solo uno su 10 ce la fa, la colpa, secondo gli autori dello studio, sarebbe in parte anche dei genitori che, tutti presi nella loro smania di successo, si sarebbero dimenticati dei figli, non riservando loro l’affetto sufficiente alla crescita. Un’altra importante differenza all’interno della specie dei ricchi è fra uomini e donne: gli uni e le altre scelgono i propri partner in maniera diversa. «Il classico miliardario se ne va sempre in giro con una donna bellissima, generalmente molto più giovane di lui: insomma, usa il potere e il danaro per procurarsi una partner che possa essere una specie di trofeo sessuale» dice Conniff. E prosegue: «Le donne molto ricche, invece, tendono, specie negli Stati Uniti, a farsi vedere in giro con uomini gay che le idolatrano. Perché? Perché più che la gratificazione sessuale cercano, al contrario, una figura maschile che le veneri a prescindere dall’aspetto sessuale». Una cosa che tutti hanno in comune, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, è però il fatto che praticamente nessun ricco si considera tale. Conferma Conniff: «Nelle mie interviste ho notato che chi ha un patrimonio di uno o due milioni di dollari considera ricco chi ne ha più di cinque. Per chi ne ha cinque, però, la soglia parte dai dieci, e si può andare avanti così all’infinito». I ricchi tendono insomma a soffrire di una patologia che gli psicologi chiamano ”deprivazione relativa”. «è un concetto già noto» spiega Enrico Pugliese, direttore dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr, «che in sociologia ha introdotto Robert Merton, premio Nobel per l’Economia nel 1997». Bisogna quindi giungere alla conclusione che la ricchezza da sola non dà la felicità? «Niente di più vero» risponde Pugliese: «Il ricco, infatti, difficilmente si mette a confrontare i suoi beni e il suo patrimonio con quelli di un povero. Generalmente, queste persone fanno paragoni con le ricchezze di un ”pari grado”. Questo però, è un atteggiamento tipico anche dei poveri. Se portiamo al limite il discorso, perciò, non è detto che le persone povere siano anche le più tristi. E infine, questo atteggiamento potrebbe anche spiegare perché alcuni miliardari soffrono del fatto che non riusciranno mai a diventare nobili e aristocratici». Ma anche se alcuni ricchi non riusciranno mai a darsi pace per non aver ottenuto un titolo nobiliare, si potranno forse rifare considerando che sono quasi sempre loro a dettare le mode. Rosaria Conte, ricercatrice dell’Istituto di scienze e tecnologie della Cognizione del Cnr, spiega: «A provare questo fenomeno c’è una teoria sociologica, che abbiamo anche dimostrato in laboratorio realizzando un sistema di società artificiale al computer. La teoria è stata elaborata dal filosofo Georg Simmel il quale sosteneva che gli individui appartenenti alle classi sociali inferiori tendono a copiare quello che fanno i ceti più ricchi». quello che per esempio hanno capito gli sceneggiatori di serial televisivi che, come nel caso di ”Dallas” e ”Dynasty”, li hanno realizzati non tanto basandosi su come sono effettivamente i ricchi ma piuttosto su come se li immaginano i poveri. «Nella società, quindi, lo status symbol parte dall’élite per scivolare verso il basso, fino quasi a scomparire» conclude la dottoressa Conte: «Una volta, infatti, che i poveri sono in grado di procurarsi lo status symbol dei ricchi, quest’ultimi lo abbandonano subito, per crearsene uno nuovo, che sia completamente irraggiungibile. Per tutti». Federico Ferrazza e Nicola Nosengo