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 2004  settembre 08 Mercoledì calendario

Macchia Giovanni

• Trani 14 novembre 1912, Roma 30 settembre 2001. Critico letterario • «Suo padre, Vito, era presidente della Corte d’Assise, vedovo con quattro figlie, sposò in seconde nozze Giuseppina. Altri quattro figli sarebbero nati da quel secondo matrimonio. ”Nella mia fanciullezza - diceva il critico - si mescolano sentimenti contraddittori, gioia e paura insieme”. Nel conto della gioia metteva la sua città: la luce, l’antico, la pietra, l’azzurrissimo mare. Tra le memorie spaventose: la guerra e le difficoltà di prendere sonno, ”le voci lugubri delle sentinelle” nella notte. Dalle piazze popolari e sul piccolo palcoscenico del suo paese negli anni Venti viene la sua precocissima passione per la musica e per il teatro. Imparò giovanissimo che ”uno spettacolo è un luogo di delizie e di incanti, uno spazio vuoto da riempire di colori, di luci, di ritmi, di personaggi”. Ma soprattutto casa Macchia era un risuonare di note dal pianoforte paterno, che accompagnava spesso e volentieri, nelle sere d’estate, le voci di baritoni e tenori di passaggio. Serate di gala casalinghe anche per gli spezzoni di film proiettati sulle pareti domestiche con tanto di pubblico accorrente per l’ occasione. Prima lettura, con la madre, Verga: Storia di una capinera. Ma il vero rapimento è per lo spettacolo. Giovanni non ama la scuola. Ginnasio e Liceo a Roma, senza troppa voglia di studiare. Il primo nucleo di una biblioteca che con i decenni diventerà colossale, sono i classici Sonzogno, letti su una terrazza che guardava su via Margutta. E ancora il teatro: dalle pochades ai drammi storici, dal comico al tragico, da Cechov a Pirandello. E la musica. Il padre avrebbe voluto che Giovanni diventasse cantante, violinista o direttore d’orchestra, ma per lui la musica era un’esperienza intima inscindibile dalla poesia. Nel 1930 si iscrive alla facoltà di Lettere, dove grazie a Trompeo scopre Baudelaire, che sarà l’oggetto della sua tesi e da allora diventerà suo cavallo di battaglia per tutta la vita. Una borsa di studio lo porta in un albergo del Quartiere Latino di Parigi, lo stesso di Contini. Il quale lo ricordava come un ragazzino che aveva l’aria di saperla più lunga di tutti, modesto e incontenibile. Talmente incontenibile da conoscere in poco tempo i grandi intellettuali di quegli anni, da Le Dantec a Paulhan e i circoli più importanti. Cominciano le pubblicazioni su riviste. La carriera universitaria si apre nel ’38 a Pisa, con la successione a Contini che aveva riparato in Svizzera. Nel ’40 il suo Baudelaire, uscito da Sansoni, viene salutato dalla Nouvelle Revue Française come una novità straordinaria. In quegli anni comincia una grande amicizia con il maestro Gianandrea Gavazzeni, un po’ più tardi quella con Elena Croce. Ma il guadagno è minimo, 375 lire al mese, e Macchia deve disfarsi di alcuni volumi della Pléiade per sopravvivere. Finisce la guerra e Macchia si trova a Roma, nel vivace e ricco giro di Maria e Goffredo Bellonci, da cui nascerà il Premio Strega. L’11 febbraio ’46, la sua amica Elena gli fa conoscere una sua ”compagna di giovinezza, da poco arrivata da Ginevra, che aveva perduto il marito”: Carla D’Urso sarebbe diventata sua sposa. Intanto i suoi interessi si aprono a Manzoni (con i complimenti di Contini) e alla poesia contemporanea, ma anche alla ”militanza”, con la fondazione di riviste come ”L’Immagine”, diretta poi da Brandi. Il suo amico Montale gli chiederà la prefazione a La Bufera e altro nel ’49, Macchia inspiegabilmente rifiuta, ma il loro rapporto non ne sarà intaccato. Mai e poi mai si esaurirà la sua passione per lo spettacolo. Nel ’58 muore il suo maestro Trompeo, che ricorderà in una pagina memorabile del ”Mondo”, per cui collaborerà fino al ’64. di quegli anni un folgorante ritratto del critico, firmato dalla Bellonci: ”Giovanni Macchia ha il dono del riso persuasivo, non appesantito dall’esercizio dell’insegnamento universitario, non innervosito dal logorio della critica, né velato da stanchezze di tavolino”. Macchia sapeva raccontare, sapeva sorridere, conosceva l’arte dell’aneddoto, del Witz, dello scherzo. Anche da accademico dei Lincei. Nel ’62 comincia, grazie all’intercessione di Cecchi e Montale, la sua collaborazione con il ”Corriere” diretto da Alfio Russo. Sono anni di sterminata produttività, saggi che spaziano dal Tasso all’amato Baudelaire, da Balzac a Watteau, da Pirandello ad Artaud, da Molière a Sade. Prefazioni, articoli, ricordi autobiografici. Con tutti gli onori che merita, in patria e no. I suoi saggi entrano nella collana dei Meridiani, nel ’92 riceve il premio Balzan. L’anno seguente muore la sua Carla, dopo una lunga vita trascorsa insieme, condividendo amicizie e interessi letterari. Macchia si intristisce, tra i suoi libri rincorre ormai fantasmi non solo letterari. La biblioteca di Macchia è la sua vita, non solo di critico: ”L’indifferenza al libro antico - diceva - è per me inspiegabile”. Lascia volumi di pregio assoluto: libri appartenuti al ministro francese Colbert, ai fratelli Goncourt, a pontefici e uomini di Stato. Dizionari antichi, l’Encyclopédie, tutta la Pléiade. Prime edizioni dei Saggi di Montaigne, di Manzoni, di Saint-Simon, di Pascal, di Gide e Artaud. ”Ma i più belli - ricordava passeggiando nei corridoi del suo appartamento romano - sono quasi tutti del Settecento”. E raccontava, con un sorriso negli occhi dietro le lenti spesse, dell’Orazio di Pine, un editore londinese che nel 1733 fece un libro inciso dalla prima all’ultima pagina. Era la sua passione. Come l’avanspettacolo che da bambino guardava seduto in una poltroncina del teatro del suo paese. Uno studioso premiato dai francesi» (Paolo Di Stefano, ”Corriere della Sera” 1/10/2001).