Varie, 8 settembre 2004
Tags : Jean Daniel
Daniel Jean
• Blida (Algeria) 21 luglio 1920. Giornalista • «Fondatore e direttore del ”Nouvel Observateur”, nato in Algeria da una famiglia di origine ebrea sefardita e cresciuto a Parigi [...]» (Caterina Pasolini, ”la Repubblica” 8/9/2004) • «[...] ebreo ”non credente”, o ”esterno alla Comunità”, come ama definirsi - [...] giornalista (fondatore e direttore di Le Nouvel Observateur ), raffinato intellettuale e scrittore, è autore di Le temps qui reste (Gallimard, 1984), De Gaulle et l’Algérie (Seuil, 1986), Dieu est-il fanatique? Essai sur une religieuse incapacité de croire (Arlea, 1996) e La guerre et la paix. Israël-Palestine. Chroniques 1956-2003 (Odile Jacob, 2003) • [...] Spesso i suoi saggi hanno suscitato dibattito. [...]» (Oliviero La Stella, ”Il Messaggero” 20/2/2005). considerato l’inventore del «giornalismo culturale»: « una definizione data da Régis Debray. Quando ho dovuto scegliere un mestiere, sapevo già che avrei scritto. Lo sapevo perché avevo avuto successi scolastici e avevo un enorme interesse per la cultura in generale, a tal punto che mi ero detto: se devo scegliere qualcosa, dev’essere una sintesi. A quell’epoca, nel’immediato dopoguerra, i grandi maestri erano americani: Hemingway, Caldwell, Steinbeck e soprattutto Dos Passos. Quest’ultimo riuniva in sé l’impegno politico, il talento narrativo e la volontà di pensare il proprio secolo. E poi ero impregnato di un libro importante per tutta una generazione, La speranza di André Malraux. Lui stesso aveva detto di amarlo meno dei suoi altri lavori, ma era il più giornalistico, un reportage. Il mio amico Elio Vittorini mi diceva che considerava importantissimo il riferimento a Malraux e ne discutevamo molto. Questo libro era all’origine della vocazione di tanta gente come Camus, Kessler, Orwell, Londres, tutti superiori a me, ma che cito solo per dire che questa era la famiglia. Avevo uno spirito divoratore per tutte le cose culturali, ero impregnato di letteratura e filosofia, vivevo in mezzo alle polemiche tra Sartre, Camus e Aron, che scrivevano sui giornali. Mi sono detto che sarei diventato giornalista con tutto questo bagaglio [...] Quando ho fatto reportage, soprattutto durante la decolonizzazione, ho lentamente maturato un’idea, che poi ho applicato: quando vai in un paese che non conosci, per raccontare un dramma o una storia che non conosci, bisogna rivolgersi verso chi ha già fatto questo attraverso l’arte. Se devo cercare l’anima di un popolo, la gente non mi ha aspettato per questo: sono stati gli scrittori a descriverla. Bisogna leggerli se si vuol tentare di aggiungere qualcosa. Il ”giornalismo culturale” è cominciato così e mi è servito anche quando sono diventato l´animatore di un giornale. [...] Quando ho creato il ”Nouvel Observateur”, nel 1964, il giornale si era circondato di storici, sociologi, universitari: François Furet, Georges Duby, Jacques Le Goff, Michel Foucault, Edgar Morin, tanto per citarne alcuni. Prima di Debray, Foucault aveva scritto nella prefazione a un mio libro che credeva di aver scoperto una forma culturale applicata al parlare di politica. Questa reputazione mi viene dunque dall’universo in cui ho fatto vivere i miei collaboratori. Ho sempre voluto che il giornalismo intrattenesse un dialogo con la cultura e i creatori [...] Avrei voluto essere un pianista. Ogni volta che vado a un concerto sono invidioso» (’la Repubblica” 24/6/2005).