Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2004  settembre 07 Martedì calendario

Eisenman Peter

• Newark (Stati Uniti) 11 agosto 1932. Architetto. Si è formato a Cornell, Columbia e Cambridge in Inghilterra. architetto, teorico e docente. Ha insegnato nelle università di Cambridge, Princeton, Yale e Ohio State. Dal 1967 all’82 ha fondato e diretto l’Institute for Architecture and Urban Studies di New York e diretto la rivista ”Oppositions”. Poi professore di architettura a Yale e alla Cooper Union di New York. Nel 1980 ha fondato lo studio Eisenman Architects. Tra le opere realizzate: una serie di case sperimentali; il Wexner Center for the Visual Arts a Columbus, Ohio; la sede Koizumi Sangyo a Tokyo; l’Aronoff Center for Design and Art a Cincinnati; il Memoriale allo sterminio degli ebrei d’Europa a Berlino; La Città della cultura di Galicia a Santiago de Compostela; lo stadio degli Arizona Cardinals a Phoenix, Arizona. Ha fatto parte del gruppo New York Five (con Hejduk, Graves, Gwathmey e Meier), ha pubblicato diversi volumi teorici, tra cui House X, Houses of Cards, Diagram Diaries, Blurred Zones, Chora L Works (con Jacques Derrida). «Enfant terrible dell’architettura, sempre pronto a giudizi taglienti, perfettamente a suo agio nelle acque increspate delle provocazioni. [...] ”siamo presi dalle magie del computer, dalla suggestione che un progetto può esercitare al di là della sua intrinseca qualità e dallo star-system che si è imposto recentemente. Per essere chiari, sono contro l’architettura-spettacolo che oggi imperversa... Per me, crea passività e alimenta un circolo vizioso: più questa architettura è spettacolare e più deve diventarlo, in una sequenza senza fine. Ma è davvero grande architettura? [...] Dobbiamo tornare a un certo rigore. Non al classicismo, ma a un rigore di metodo della progettazione che non deve essere né una spettacolarità gettata in pasto ai media né la magia degli algoritmi dei computer. Non possiamo leggere una rivista senza trovare articoli di esaltanti consensi su Frank Gehry o Calatrava o Zaha Hadid. Il bene dell’architettura, però, è un’altra cosa”. [...] Giunto al successo nel 1969 quando, a Manhattan, uno storico dibattito al Museo d’Arte Moderna consacrò il suo lavoro e quello di altri quattro giovani architetti (Richard Meier, Michael Graves, John Hejduk e Charles Gwathmey, ribattezzati i ”New York Five” e accomunati dal confronto tra una ”poetica della nostalgia” e l’International Style), autore di edifici pubblici e privati celebri (dalle House II e House III degli anni 60 al Centro Wexner per le arti visive a Columbus), docente a Princeton e Harvard, Eisenman ha ricevuto [...] a Roma una laurea honoris causa dall’Università La Sapienza come interprete di ”un’architettura critica sempre pronta a rimettersi in discussione e ad affrontare il cambiamento”. [...] ”Penso che i libri siano importanti come gli edifici. Senza i Quattro Libri di Palladio noi non potremmo comprendere il suo lavoro. E altrettanto si può dire a proposito di Le Corbusier e delle sue Opere complete o di Verso un’architettura. I libri di Le Corbusier e quelli di Palladio sono più importanti delle loro opere, ecco il punto! Invece, negli ultimi anni, non c’è stato un grande libro dai tempi di Delirious New York di Rem Koolhaas che è del ”76-77. Quando Zevi ha scritto la sua Storia dell’architettura o quando Giedion ha scritto Spazio, tempo e archittetura tutti li hanno letti. E così è stato con Teorie e storia dell’architettura di Tafuri o Architettura della città di Rossi, che ha comunicato un’idea universale dell’architettura. [...] Manca un’adeguata, profonda, stimolante riflessione. Io stesso che, oltre ad essere un architetto, sono un teorico dell’architettura, non ho ancora scritto un grande libro. Allora, mi auguro che ci sia un ritorno alla serietà, ai problemi e alle grandi questioni dell’architettura. Insomma, non sono affatto entusiasta di quello che sta accadendo. E non lo dico volentieri, perché un architetto deve essere ottimista quasi per definizione” [...]» (Massimo Di Forti, ”Il Messaggero” 6/9/2004). «L’uomo è spiazzante, inafferrabile. Al di là del Bello e del Brutto. Un intellettuale europeo infiltrato nel corpo di un intellettuale americano. Lo hanno definito in tanti modi, nessuno semplice: decostruzionista, concettuale, post strutturalista. Lui, Peter Eisenman, si definisce architetto. [...] molto ”influential”: nel senso che influenza, sparge germi. I germi di un’estetica contemporanea ”nell’età del terrore”, come dice lui. [...] ”ci troviamo nell’età del terrore. E l’architettura deve cambiare, in senso ideologico e politico. Non può più essere spettacolare. [...] Nel nuovo c’è sempre il rischio. Ma tutti i personaggi che hanno lasciato traccia nella storia hanno assunto rischi. Borromini, Piranesi. Bramante stesso era un organicista, basta vedere il suo primo progetto per San Pietro. Perciò io non mi preoccupo dei mostri. Guardiamo come si vestono le donne oggi: se l’avessimo l’immaginata quarant’anni fa, la moda attuale, l’avremmo detta mostruosa. Ma oggi è la realtà. Quel che ci appare mostruoso oggi potrebbe non esserlo domani. un fatto di percezione [...] Io non sono interessato alle griffe, al disegno di una boutique di Prada. Ma è pazzesco che tutti gli architetti che erano di sinistra oggi lavorino per le catene commerciali, i marchi del lusso, le grandi banche. Io continuo a pensare che ci dovrebbe essere un minimo di coerenza tra l’architettura e le idee; non possiamo ridurre tutto a consumismo. I media creano e distruggono l’architettura. [...] Il mio lavoro non nega l’importanza dei media ma io non sono un eroe mediatico come lo sono Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Frank Gehry. E sa perché? Perché io sono un altro genere di star [...] Lo sanno i miei clienti, lo sanno i media. A me non vengono a chiedere certe cose come a Rem o a Frank. Perché sono diverso. Non dico peggiore o migliore: diverso. Io scrivo, insegno, vado alle partite di calcio, leggo la ”Gazzetta’ e mi informo di come va l’Udinese. Io ero all’Olimpico a gustarmi Lazio-Roma quando si sono scatenati i tifosi della curva, facevano paura. Ero al Bernabeu nell’82, vidi l’Italia battere la Germania. Lei crede che i due ragazzi Rem e Frank abbiano le stesse mie abitudini? Per capirci, io amo l’autonomia e amo l’anonimato. Mi piacerebbe moltissimo progettare uno stadio a Como, per esempio. Ma quando sono allo stadio mi piace essere anonimo, così come sono autonomo come architetto [...] Penso questo: se siamo entrati nell’età del terrore, allora dobbiamo muoverci in un’altra direzione, e la direzione è l’interiorità. Questo vuol dire, tra l’altro, che non possiamo più creare un’architettura che faccia da attrattore per il terrorismo. L’11 settembre, le Twin Towers furono colpite come simbolo del capitalismo e dei valori occidentali secolarizzati. Fu un attacco reale e simbolico insieme. Non credo invece che un terrorista attaccherebbe il mio monumento agli ebrei a Berlino, proprio per il suo carattere antispettacolare. [...] Io amo la parte realizzativa. Amo stare in cantiere e veder crescere i miei edifici. Il mio lavoro intellettuale non è il lavoro costruito. Penso che le idee di Peter Eisenman allo stato puro stiano dentro ai miei libri. [...] Carriera anomala? Perché scrivo e insegno oltre a costruire? Se questa è una carriera anomala cosa dovremmo dire di Brunelleschi, o Leon Battista Alberti? Se Le Corbusier non avesse scritto Vers une architecture chi avrebbe guardato con attenzione ai suoi edifici? O prendiamo il Palladio, i suoi Quattro libri. I libri hanno vita più lunga degli edifici. Alcune delle mie architetture sono già state demolite. Io non ho avuto una carriera anomala. Mi considero un architetto ”mainstream’ [...] ogni volta che vado in Germania, diversamente dall’Italia, arrivo da americano e riparto da ebreo. E perché? Perché le persone in Germania sono talmente consapevoli che io sono ebreo, e fanno di tutto per essere carini, che alla fine il tutto ha qualcosa di innaturale, e mi fa sentire a disagio. Quando sono in Italia, a nessuno frega nulla se sono ebreo, basta, finisce lì. Prenda New York: è una città molto ebrea, New York, eppure io lì mi sento un alieno. Mi sento molto più a casa mia in Europa. Sarà che insegno l’architettura italiana, ho scritto un libro su Terragni, che non era - ricordiamolo - un architetto fascista, ma un architetto che è stato fascista”. [...]» (Enrico Arosio, ”L’Espresso” 20/1/2005).