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 2004  settembre 07 Martedì calendario

Corpora Antonio

• Nato a Tunisi (Tunisia) il 15 agosto 1909, morto a Roma il 6 settembre 2004. Pittore. «’Egli, africano, è tra noi forse il più europeo” [...] parole di Renato Guttuso. Le scrisse, Guttuso, nel 1947, all’interno di un suo testo su Corpora che consegnava a Giuseppe Marchiori, perché il critico lo pubblicasse sul catalogo della prima, storica mostra che avrebbe tenuto, nella galleria della Spiga a Milano, il ”Fronte Nuovo delle Arti”: il gruppo che, da lui aggregato, raccoglieva l’’Nuova Secessione Artistica Italiana”, unendo su base nazionale le forze nuove dell’arte italiana per proporle con qualche autorità a un pubblico, e a un mercato, latitanti e dubbiosi. Il ”Fronte Nuovo” aveva dunque nei suoi cromosomi, forse prevalente su ogni altra, questa preoccupazione tattica o strategica: era prima di tutto un’unione di giovani intesa a segnare la propria presenza in quel dopoguerra difficile. Nonostante ciò, quel gruppo fu il luogo dove un manipolo di artisti (insieme a Corpora e a Guttuso, fra gli altri Birolli, Leoncillo, Morlotti, Turcato, Vedova. ..) dibatté per la prima volta quale dovesse essere il destino delle arti figurative in Italia: se, in particolare, esso dovesse porsi sulle tracce di quella ”via francese” che sembrava allora la più aggiornata, declinando ipotesi prima di tutto formali, o dovesse invece militare a fianco delle più impegnate lotte civili e politiche in un linguaggio dichiaratamente realista. Corpora, fin da allora, aveva nitida consapevolezza dell’indipendenza che le arti visive avrebbero dovuto serbare da ogni coinvolgimento politico, e da ogni obbligo comunque servile nei confronti d’un impegno altro ed eterodosso rispetto alle ragioni gelose della forma. E tale consapevolezza egli aveva testimoniato sin dai primi giorni d’un dopoguerra subito ferocemente dilaniato da battaglie di carattere ideologico: giorni che lo vedevano rientrare in Italia, a Roma, dopo il lungo peregrinare che ne aveva segnato tutti gli anni Trenta e l’avvio dei Quaranta, fra Parigi, Roma, Milano e Tunisi. Le parole di Guttuso, che di lì a poco si sarebbe posto a capo della corrente italiana del nuovo realismo, sono dunque importanti perché testimoniano onestamente e lucidamente di quella priorità che Corpora ebbe allora su tutti, nel nostro Paese, nell’indicare quella via di forte autonomia della pittura da ogni ideologia che l’insidiasse; e perché riconoscono come proprio lui (’africano” per esser nato a Tunisi, da genitori italiani, nel 1909), grazie a quel suo lungo rapporto intrattenuto nel decennio precedente con Parigi e con il clima ricco d’umori internazionali di Abstraction-Création, fosse l’unico (insieme, forse, al solo Birolli) in grado di portare nell’ambiente italiano pensieri realmente europei. S’era educato alla pittura, Corpora, fin da giovanissimo, avendo per maestro a Tunisi (allora, naturalmente, intrisa di cultura francese) tale Armand Vergeaud, già allievo di Gustave Moreau ma soprattutto condiscepolo di Matisse, Marquet, Dufy; e da questa sua prima educazione può dirsi che egli in qualche modo non si distaccò più: mettendo d’ora in avanti a costante fondamento della sua pittura il senso d’un colore caldo, fastoso, tripudiante, sempre egemone rispetto al disegno e sempre acceso fino a quel suo diapason dall’emozione di un attimo piuttosto che non da una intenzione analitica o razionale. Emozione che Corpora provava ogni volta di fronte a uno spettacolo di natura: né la sempre riaffermata militanza ”non figurativa” della sua arte trovò in questa radice fonda del suo sentire un seme di contraddizione. La natura, i suoi incanti, i suoi sempre mutevoli umori hanno costituito per lui un termine di confronto dal quale la sua pittura ha potuto trarre nel tempo nuova linfa senza mai rischiare il regresso nella semplice mimesi: in ciò ripetendo quello straordinario talento che aveva nutrito le stagioni tarde di Cézanne e di Monet. Ai quali infatti Corpora, senza spavento e senza tema di incorrere in un rischio d’inattualità, esplicitamente si riferiva nei molti testi di critica militante che affidò, nell’immediato dopoguerra, alle colonne de La Fiera Letteraria, nell’intento di guidare appunto in direzione francese il rinnovamento della pittura italiana del tempo. Furono quelli, per Corpora, gli anni cruciali: quelli in cui più rilevante fu il suo contributo, anche teorico, ai passi nuovi di un’arte stretta sino ad allora nei lacci di una tradizione non più declinabile. Allora Corpora consegnò a Marchiori prima, a Lionello Venturi poi, le sue esperienze e conoscenze: tanto che, quando i compagni che avrebbero con lui costituito il ”gruppo degli Otto” pensarono a Venturi come al critico che congruamente e autorevolmente ne avrebbe potuto introdurre e sostenere la ricerca, chiamarono proprio Corpora a promuovere quell’incontro: Corpora che di Venturi era allora il primo interlocutore, e colui che più d’ogni altro ne condivideva le convinzioni, che volevano la pittura un fatto come in bilico fra memoria e pensiero, fra immagine e astrazione. Un bilico che avrebbe dato il frutto ambiguo dell’’astratto-concreto”: nel quale molti, poi, si attarderanno, come irresoluti sulla via da intraprendere. Diverse le motivazioni che giustificavano quel modo in Corpora: che dalla tradizione fondata negli ultimi sviluppi dell’impressionismo desumeva la nozione che sarebbe rimasta nel tempo per lui fondante, tesa fra un pensare la superficie come luogo autonomo, e anzi unico luogo di una pittura non più referenziale, abitato e commentato solamente da linee e colori, e una non mai del tutto sopita volontà di riconvocare su quella superficie il ricordo non delle semplici apparenze, ma sì dell’emozione scaturita dall’incontro con la natura. In questo difficile equilibrio Corpora ha tenuto, per un tempo che la sorte ha voluto lungo e felice, la sua pittura: dentro ed oltre l’’astratto-concreto”, attraverso quello che uno dei suoi critici più acuti, Cesare Vivaldi, ha definito il suo ”informale eterodosso”, e poi attraverso la stagione segnica degli anni Settanta, sino agli anni ultimi, quand’egli è tornato sovente sui medesimi temi (l’acqua, e il volgere delle stagioni, e la luce diversa che in un medesimo squarcio di paese sanno dare le ore opposte del giorno: non avendo timore, neanche in questo, di ripensare la lezione di Monet, suo vero e lontano maestro); ma senza quella stanchezza interiore che talvolta coglie lo spirito nell’età più tarda. Anzi, con scarti sempre nuovi, con abbandoni quasi imprudenti, di cui un’età meno colma avrebbe forse avuto spavento; nei dipinti, incostanti ma poi d’improvviso e di nuovo felici; e soprattutto nella tecnica difficile dell’acquarello, luogo per lui privilegiato, da sempre, di libertà e di azzardi della mano» (Fabrizio D’Amico, ”la Repubblica” 7/9/2004).