6 settembre 2004
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DiLeo Fernando
• Nato a San Ferdinando di Puglia (Foggia) l’11 gennaio 1932, morto a Roma il 3 dicembre 2003. Regista. «Per chi lo ha conosciuto, o ha visto i suoi film, o ha semplicemente letto quel che ne ha sempre detto Quentin Tarantino, Di Leo era un piccolo mito del cinema italiano. Basterebbero i suoi grandi noir degli anni 70, Milano calibro 9, Il poliziotto è marcio, Il boss, Diamanti sporchi di sangue. Forse non tutti i suoi film sono dei capolavori, ma quando si riscriverà una storia del cinema italiano, è ovvio che Di Leo avrà un posto di tutto rispetto proprio nel cinema d’autore che lo ha così a lungo snobbato. Perché questi suoi noir anni 70 non erano dei semplici poliziotteschi, ma tentativi in gran parte riusciti di film d’autore, nella scia di Melville, il suo regista preferito, e di quel Tarantino che lo omaggerà platealmente in Pulp Fiction riprendendo la coppia di killer bianco-nero, cioè SamueI Jackson - John Travolta al posto di Woody Strode - Henry Silva. Il cinema di Di Leo era sporco, vitale, colto, molto politico (nel suo bagno troneggiava la scritta: ”grazio Dio che mi hai fatto di sinistra”), pronto anche a prendere di petto i notabili dc nei modi più impensati. Niente a che vedere col cinema di denuncia o di mafia di Damiano Damiani o di Francesco Rosi, più vecchio oggi proprio perché troppo levigato, spesso anche un po’ trombone. A Sciascia Di Leo preferiva il giallista puro Giorgio Scerbanenco, ovviamente, che era più diretto. Assieme al suo direttore della fotografia, Franco Villa andavano giù duri nel dipingere un mala vera, affascinante, fatta di soldati che si ribellano ai generali, piccoli papponi in lotta col mondo. I colori non sono mai nitidi, i costumi non sono mai perfetti, le scenografie sono ultrarealistiche. Gli eroi di Di Leo sono il contrario del bello che si vede oggi a Hollywood. Mario Adorf o Gastone Moschin, o attori americani sulla via del tramonto pronti a essere rivitalizzati. Pugliese, ricco, con buone letture, nei primi anni 60 Di Leo lavora con un gruppo di altri giovani di talento come Franco Girali, Duccio Tessari, Tonino Valerii, ai copioni dei primi western all’italiana e diventa presto uno degli sceneggiatori chiave del genere. Non sapremo mai veramente a chi si debba il successo di un film piuttosto di un altro. Negli ultimi anni molte sono state le polemiche tra i sopravvissuti. Di certo, Di Leo collabora attivamente alla sceneggiatura dei primi due film di Sergio Leone, Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più. Il suo peso devo essere stato comunque notevole visto che firma poi ì maggiori successi dei primi western di Franco Girali, come, Sette pistole per i MacGregor e Sette donne per i MacGregor, o di Duccio Tessari, Il ritorno di Ringo, confermandosi poi come sceneggiatore ideale della nuova star Giuliano Gemma. Firma anche un copione strepitoso per Lucio Fulci, Tempo di massacro con Franco Nero e Nino Castelnuovo, uno dei primi western davvero sadici e violenti del nostro cinema, e poi la curiosa operazione ”alta” di Florestano Vancini, I lunghi giorni della violenza con Giuliano Gemma. Ma scrive un po’ per tutti, da JohnnyYuma di Romolo Guerrieri, allora un superwestern, a Ognuno per sé di Giorgio Capitani con Van Johnson e Klaus Kinski, il primo western gay italiano, da Al di là degge di Giorgio Stegani al bellissimo Navajo Joe con un giovanissimo Burt Reynolds, Quando passa alla regia alla fine degli anni 60, dopo un curioso esordio in un film a episodi diretto a più mani, Gli eroi del doppio gioco, Di Leo è uno sceneggiatore di grido nel western che sceglie invece generi completamente diversi. Tralasciamo il quasi terrificante, nel ricordo di allora, Rose rosse per il Fuhrer (1968) con Anna Maria Pier Angeli e Nino Castelnuovo, ma i tre film usciti nel 1969 sono tutti interessantissimi e puntano sulla realtà dei loro tempi: Brucia ragazzo, brucia che ebbe pesantissimi problemi di censura, I ragazzi del massacro, tratto da Scerbanenco che è il suo primo noir, e Amarsi male, il meno riuscito. In tutti e tre Di Leo fonde nei generi, erotico, noir, sentimentali, la ventata del 68. Sono in qualche modo film esplosivi dove Di Leo proverà a rompere le maglie della censura e dichiarerà subito la strada che intende seguire. Un cinema senza regole, anarchico, che vuole andare dritto allo stomaco dello spettatore per sancire piccoli diritti. Non importa se i film non sono perfetti. Brucia ragazzo brucia ha un successo spaventoso, e, secondo il regista il suo unico intento era mettere in scena la libertà sessuale al femminile. La bestia uccide a sangue freddo del 1971, thriller orrorifico con Klaus Kinski, Rosalba Neri e Margareth Lee, anche secondo Di Leo, non è molto riuscito, ma il successivo Milano Calibro9 con Gastone Moschin, Barbara Bouchet e Mario Adorf è già un capolavoro del genere. Di Leo capisce che ha trovato definitivamente il suo genere e tutti i noir successivi sono più che riusciti, da La mala ordina a Il padrone della città. Produttore indipendente, eroico come i suoi personaggi, Di Leo non riesce a superare la grande crisi dei generi alla fine degli armi 70. L’arrivo della tv a colori, e contemporaneamente dell’impero Mediaset sancisce la fine di tutto un cinema italiano, Di Leo compreso. [...] il suo canto del cigno è Avere vent’anni del 1978 con la coppia Lilli Carati-Gloria Guida, curiosissimo film a metà tra la commedia erotica on the road e il noir più cupo. visto che le due verranno stuprate e brutalmente uccise alla fine del loro viaggio. Naturalmente venne massacrato dalla censura e non sempre si riesce a vederlo nella sua interezza. Ma al di là delle assurde apparizioni di Mastelloni-Bracardi-Caprioli, o della visione un po’ troppo personale del mondo hippy, il film è di grandissimo culto già nella scelta della coppia di ventenni protagoniste. Gli anni 80 segnano per Di Leo solo tre film, non troppo riusciti: Vacanze per un massacro (1980), violentissimo thriller erotico claustrofobico con un Joe Dallesandro troppo fatto, e due già tardi noir, Razza violenta (1984) e Killer contro Killers (1985). [...]» (Marco Giusti, ”il manifesto” 4/12/2003).