varie, 2 settembre 2004
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DI STEFANO Giuseppe Motta Sant’Anastasia (Catania) 24 luglio 1921, Santa Maria Hoè (Lecco) 3 marzo 2008
DI STEFANO Giuseppe Motta Sant’Anastasia (Catania) 24 luglio 1921, Santa Maria Hoè (Lecco) 3 marzo 2008. Tenore • «[...] originario di Catania ma trapiantato a Milano a 6 anni con i suoi genitori, padre carabiniere, madre sarta [...] un tombeur des femmes. Bello, allegro, generoso, Di Stefano piaceva infinitamente alle signore. Due mogli (con la prima, Maria Girolami, ebbe tre figli), infinite fidanzate. Si disse anche con Maria Callas... ”Non è vero, quella è una storia inventata da una sua ex, la cantante inglese Nicola Kirsh, che per vendetta andò a spiattellarla ai giornali assicura Zeffirelli, grande amico della Divina - . Maria e Pippo erano solo grandi amici. Due personalità singolari, grandi complici sulla scena. Alla fine due naufraghi, aggrappati l’un l’altra per prolungare la loro carriera”. ”Per me lui è stato il Walter Chiari della lirica - aggiunge Filippo Crivelli - . Con Pippo ho lavorato negli anni d’oro della Scala. Oltre alla sua voce stupenda, alla sua teatralità istintiva, ricordo la sua grande allegria. Amava parlare, scherzare, giocare, spendere e dissipare. Un entusiasta della vita che sapeva avvolgerti con la sua energia. Proprio come Walter, di cui non a caso era amico. Una carriera bruciata in fretta per aver cantato troppo. Pippo non si risparmiava mai, né in scena né nella vita”. La vita lo ricambiò con tanti onori e tanti dolori. Tra quelli insanabili, la morte di una figlia, stroncata dalla leucemia. ”Del Monaco, Corelli e Di Stefano sono stati gli emblemi del bel canto - assicura Riccardo Chailly -. Con lui se ne va l’ultima leggenda della lirica”» (Giuseppina Manin, ”Corriere della Sera” 4/3/2008) • «Dal momento della brutale aggressione subita in Kenya con la moglie nel dicembre 2004, Giuseppe Di Stefano, allora ottantatreenne, cominciò a morire, benché si fosse miracolosamente salvato da colpi che per altri sarebbero stati letali. Fu – quell’aggressione – l’ultimo traumatico atto di una vecchiaia che pareva avviata verso una sua serenità, dopo una vita avventurosa fatta di gioie e pure di immensi dolori, di successi, di sperperi. Nelle mie categorie mentali Di Stefano, che tutti hanno chiamato e chiameranno ”Pippo”, è classificato come ”il tenore moschettiere”. Assalti all’arma bianca, alla brava, ma anche, in gioventù, a punta di fioretto: finch’è stato possibile. Era catanese. Questo dato pare fondamentale per comprendere la sua psicologia. Ha insegnato Leonardo Sciascia che la Sicilia non è una. Ne esistono molteplici, forse infinite, che al continentale, forse al Siciliano stesso, si offrono e poi si nascondono in un giuoco di specchi. Però, se possiamo definire il Palermitano sottile, riflessivo,cauteloso, laconico, così, molto in astratto, riconosciamo nel Catanese, oltre che il biondo cogli occhi azzurri, freddo e distanziante, come Concetto Pettinato, anche l’impetuoso, il generoso, forse un poco il chiacchierone. Del carattere di una delle più belle città del mondo ”Pippo” era in parte l’emblema. Ricevette dalla Natura una voce di tenore lirico. Durante la carriera essa si estese mirabilmente tanto verso il «”leggero”, del quale l’insuperato modello resta Tito Schipa, sommo anche nel repertorio cosiddetto ”lirico”, quanto verso il ”lirico spinto”. Questa voce è di sicuro una delle più belle che Natura abbia create nel secolo ventesimo. Timbro cristallino e sensuale insieme; capacità di sfumature dinamiche; ”messe di voce” e ”filature” indimenticabili; fiati lunghi e regolari. Un moschettiere dotato di tutto questo e guidato, come subito dopo la Guerra era possibile, da grandi direttori d’orchestra ch’erano anche grandi esperti di tecnica vocale e grandi taumaturgi della voce e da una generazione di ”Maestri Sostituti” che oggi sarebbero dei generalissimi: un moschettiere, dico, va all’assalto senza preoccuparsi di strategie. E vince subito. Così Di Stefano, con la sua voce miracolosa, conquistò tutti i teatri del mondo, a partire dalla Scala, ove il suo ricordo è ancora presso tutti affettuoso; cantò con De Sabata, Karajan, Serafin tra gli altri, ai quali piacque; eccelse nel repertorio di Puccini, in quello di Verdi con lui compatibile, in quello di Donizetti e nel Mefistofele di Boito; fra l’altro. Donò gioia a se stesso e a milioni di persone, sempre in modo spontaneo, per quanto atteneva a lui e a prescindere dal superiore soccorso poc’anzi detto. La fatale Moira, che non risparmia gli stessi dèi, era in agguato anche per lui. Egli non s’era preoccupato mai di razionalizzare in fatto tecnico quanto la Natura gli aveva miracolosamente elargito. Mi ripeto: ciò deve avvenire in gioventù, perché a trentacinque anni per un cantante ”les jeux sont faits”. Se vi è una tecnica per sopperire alla Natura che, dice Renata Tebaldi, ”si mette in pensione”, v’è la capacità di restare saldamente in sella. Altrimenti non è più possibile porre riparo al già fatto. Gli ultimi anni di carriera di Di Stefano sono stati una dissipazione in tutti i sensi materiali e spirituali. Anche per via della sua simpatia e della sua generosità: una cosa è essere moschettiere, una cosa cialtroni, come altri, non lui. Io l’ho conosciuto una sola volta per cinque giorni consecutivi. Mi trovavo, infatti, con lui nella giuria di un concorso di canto: il mio scopo, che raggiunsi, era quello di stare durante i lavori sempre attaccato alla gonna della somma Magda Olivero per imparare qualcosa da lei. Quando incominciammo a parlarci, egli mi raccontò un episodio che potrebb’essere una sintesi del suo carattere. Durante la Guerra, ma a Italia ancora indivisa, Pippo giovinotto se ne venne a Milano avendo ottenuto un’audizione alla Scala. Doveva aspettare una chiamata nella pensione ov’era sceso e sarebbe stato ascoltato dal maestro Gino Marinuzzi, allora e in seguito soprintendente del Teatro. Passò l’intera settimana e la chiamata non giunse. La domenica mattina Di Stefano venne svegliato: il Maestro l’attendeva subito. Si precipitò lì e davanti a lui non riuscì a emettere la voce. Dovette confessare a Marinuzzi di esser stato la notte cogli amici al casino. Il Maestro sorrise e, in palermitano stretto, gli disse: ”Vattene a riposare, figlio, ci vediamo domani”» (Paolo Isotta, ”Corriere della Sera” 4/3/2008) • «’Io sono solo alfin... il gran momento è questo”: era il 1947, aveva 26 anni, incideva il primo disco, iniziando dalla Manon di Jules Massenet. L’appassionata bellezza della sua voce solare, espansiva, generosa, spavalda di darsi, orgogliosa, era già tutta lì. [...] i primi successi al Concorso ”voci grezze” del 1938, poi come cantante leggero, interprete di canzoni e di avanspettacolo, con immancabile nome d’arte, sicilianissimo: Nino Florio. Trascorre gli ultimi anni della II Guerra Mondiale rifugiato in Svizzera, interpreta i primi ruoli operistici. Poi, la sua carriera non inizia, esplode: debutta a Reggio Emilia, l’anno dopo già canta alla Scala, che resterà il ”suo” palcoscenico per un quarto di secolo. Ventisei titoli, 185 recite [...] ”Il disco era importantissimo - scriverà Di Stefano -. Toscanini conobbe la mia voce attraverso il disco. Quando arrivai a New York - era l’inizio del 1948 - pochi giorni dopo squillò il telefono; all’altro capo del filo era Toscanini che voleva darmi il benvenuto”. Lo volle anche per incidere assieme la Messa da Requiem di Verdi, all’inizio degli Anni Cinquanta, il suo decennio mirabile: dal Metropolitan di New York all’Arena di Verona, l’Opera di Vienna, il Covent Garden... Il mondo dell’opera si accorge subito di lui: sembrava aspettare una voce così naturalmente comunicativa, così colma di speranza, un giovane tenore così bello, robusto, così scenicamente vivo. ”Un tenore ardente e vibrante, ma incapace di riconoscere quale tipo di ardore e di vibrazioni s’addica a Verdi e quale a Puccini o a Mascagni e per di più affetto dalla mancanza di nobiltà, anzi dalla sguaiataggine, che è insita nell’emissione cosiddetta aperta”. Rodolfo Celletti - in questo severo giudizio - aveva qualche torto tecnico, ma soprattutto spettacolare. L’incisione del Ballo in maschera del 1956, con Maria Callas, Tito Gobbi, l’Orchestra della Scala e la direzione di Antonino Votto, va ascoltata pensando di vederla, e ascoltandola non si può non vedere, perché la passione amorosa di Riccardo e Amelia è qualcosa che travalica i problemi stilistici: è un’onda di canto e di sensi che travolge, chi allora era in sala, chi li ”sente” adesso. Una disposizione teatrale che l’incontro con Luchino Visconti affina: è lui Alfredo nella leggendaria Traviata scaligera diretta da Carlo Maria Giulini. I suoi spiriti erano davvero ”bollenti” e Visconti capì che questa giovinezza prorompente di desiderio poteva diventare un valore assoluto, più forte di qualche carenza interpretativa. Con Maria Callas il sodalizio non è soltanto professionale: ma la relazione privata, lunga, affaticata, turbolenta, avidamente inseguita dai rotocalchi, regala ai due protagonisti gioie meno durature dell’effimera eternità dell’istante artistico. Tra gli esiti meno indimenticabili, la regia a quattro mani, nel 1973, per I Vespri siciliani di Giuseppe Verdi in occasione della riapertura del Teatro Regio di Torino. L’anno dopo, la loro ultima, interrotta tournée. Di Stefano non appartiene alla scuola elegantissima di Tito Schipa e di Alfredo Kraus, ma nelle interpretazioni più convincenti riesce ad essere persuasivo e seduttivo anche nelle mezze voci, nei fiati lievi, negli accenti intimi: in Soave fanciulla della Bohème, nel Lucean le stelle di Tosca come nel Dolce incanto dalla Manon di Massenet, tali qualità emergono con netta evidenza. Era questo il Di Stefano che Luciano Pavarotti prediligeva, fino a considerarlo il proprio idolo, senza nascondere il debito interpretativo, evidente soprattutto nella espansiva chiarezza della dizione. Se l’entusiasmo lo ha talvolta portato a scelte rischiose, lo faceva perché - sono parole di Giulietta Simionato – ”ogni cosa gli veniva semplice, con la facilità e la naturalezza di un artista unico, tutto genio e sregolatezza”» (Sandro Cappelletto, ”La Stampa” 4/3/2008) • «Ho cantato per il gusto di cantare, senza dannarmi per ottenere il successo a ogni costo [...] ”Fighiu miu”, mi raccontava mamma, ”a mezzogiorno preciso sei nato, era domenica e tutti li campani sonavano. Occhi da brigante avevi e li capiddi niuri, niuri” [...] 1948. Arrivai a New York, con il mio maestro, il grande baritono Luigi Montesanto. Nessuno mi conosceva. Al terzo giorno di permanenza nella cità, al mattino, mentre stavo facendo colazione a letto, squillò il telefono. Andò a rispondere il mio maestro, che a New York era famoso per aver cantato tante volte. Era un uomo di mondo, padrone delle situazioni, ma al telefono lo vidi impallidire e balbettava. Quando ebbe finito, si sedette e sudava. ”Chi era al telefono?”, chiesi meravigliato. ”Toscanini” rispose con un filo di voce. ”E che voleva?”. ”Dirmi che canti come piace a lui, semplicemente, senza tante smancerie”. Rimasi di stucco. Toscanini era il mito, era il più grande direttore, di cui tutti avevano stima incondizionata e che tutti temevano. Sapeva che io, giovane e sconosciuto tenore, ero a New York e aveva voluto telefonarmi per dirmi quelle cose meravigliose. Non credo di avere mai più ricevuto un complimento tanto importante. Provai una gioia immensa. Tre anni dopo, il 27 gennaio del 1951, Toscanini doveva dirigere alla Carnegie Hall di New York il Requiem di Verdi per il cinquantesimo anniversario della morte del compositore. Mi cercò, mi volle in quel concerto, e fu un’esperienza indimenticabile. Mi regalò poi una medaglia d’oro a ricordo della manifestazione, che porto sempre al collo [...] La musica e il canto per me non sono stati una professione, ma un modo di comunicare, di trasmettere gioia, felicità, di stare in allegria con la gente [...] In tutte le interviste si finisce sempre per chiedermi della Callas. Non ho mai voluto parlare di lei per una semplice ragione: ho grande rispetto della sua vita, della sua persona. Di Maria artista ho sempre parlato, con entusiasmo; di Maria persona e delle vicende che ci hanno legati, no. Quelle sono cose nostre, private [...]» (Renzo Allegri, ”Chi” 1/8/2001).