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 2004  agosto 31 Martedì calendario

Flynt Larry

• Magoffin (Stati Uniti) 1 novembre 1942. Editore • «L’uomo che si considera il re della pornografia, ed è stato immortalato in un film di Milos Forman come il paladino della libertà di espressione in campo sessuale [...] 1970, quando aveva 27 anni ed era solo il gestore di uno strip-bar a Columbus, in Ohio, e il sesso praticato senza limiti con tutte le donne che passavano per il suo locale era già una sua attività consacrata. Prima di quel giorno, Flynt era un signor nessuno, nato in una fattoria del Kentucky, dove il padre faceva il mezzadro e il giovane Larry, come ha poi raccontato nell’autoagiografia An Unseemly Man: my life as a pornography and social outcast (Un uomo indecente: la mia vita di pornografo e reietto della società), uno che faceva sesso con gli animali e distillava alcol di nascosto prima di cominciare un lungo vagabondare per l’America e il mondo. Era dunque il 1970, Flynt aveva trovato un modo di sbarcare il lunario, quando decise di piazzare un annuncio pubblicitario, sempre sul “Washington Post”, offrendo soltanto 25 mila dollari in cambio di notizie su due deputati del partito democratico; Wayne Hayes, un congressman dell’Ohio, che si era abbandonato tra le braccia di una ragazza che lavorava nel suo staff, e Wilbur Mills dell’Arkansas, che correva dietro alle gonne, anzi ai pizzi, di una certa Fannie Foxe, una spogliarellista. Che c’entrava il gestore di un locale di striptease con le avventure dei politici di Washington? Il futuro editore non cavò granché dal suo annuncio, ma spiegò così il suo gesto che ebbe comunque una certa risonanza: .Volevo fare un po’ di soldi e divertirmi.. Flynt trovò entrambi puntando tutto sul sesso. Nel suo locale prese forma “Hustler”, la rivista che lo ha reso ricco e famoso. Era il 1974 e Larry, insieme al fratello Jimmy, decise di diffondere il sesso senza alcun velo o censura. Cominciò con una rivistina di due fogli, più un ciclostilato hard-core che un patinato. Fu un successo che lo convinse a cominciare una ricerca continua di ragazze disponibili a farsi fotografare in ogni posizione, da sole o in compagnia, raffigurando l’eros nel modo più sfacciato. “Hustler” fu subito definito il manuale della pornografia ginecologica, perché gli attributi maschili e femminili dovevano essere sempre enormi, le scene di accoppiamento le più audaci, le situazioni erotiche al limite dell’immaginazione. Al confronto di “Hustler”, “Playboy” e “Penthouse” sembrano roba da educande. La rivista crebbe molto e in fretta. Nel 1975 si rese protagonista di uno scoop che fece il giro del mondo: le foto di Jacqueline Kennedy Onassis nuda sugli scogli dell’isola greca di Skorpios. Con la scritta: ecco quello che Jfk poteva guardare in camera da letto (oggi, pur di divertirsi, non smentisce che sarebbe pronto a pubblicare foto nude di Hillary Clinton, anche vecchie polaroid. scattate da Bill). In un paio di anni, Flynt fu in grado di cambiare totalmente il suo livello di vita, di aumentare in modo esponenziale il numero di donne che passavano per il suo letto, di comprarsi status symbol che avevano fatto la storia degli uomini più famosi d’America: nel caso specifico l’aeroplano tutto dipinto di rosa che era stato del mito del rock Elvis Presley. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla valanga di denunce e processi che si misero in moto a ogni numero grazie a sceriffi pruriginosi e a procuratori che si ergevano a difensori della moralità pubblica, i quali crearono intorno a Flynt un’aureola di leggenda. Lui ci mise il resto, cavalcando qualsiasi storia potesse metterlo al centro dell’attenzione pubblica. Era la fine di novembre del 1977 quando durante un volo accusò dei disturbi che gli procurarono visioni e vaneggiamenti. Lui li trasformò in una crisi mistica e religiosa, al suo capezzale accorsero signore degne di attenzione come Rush Carter, sorella dell’ex presidente Usa e da sempre votata alla attività di assistenza. Lui, che era ormai The King of Smut, il re del porno, utilizzò questa svolta della sua vita per rallentare solo temporaneamente le sue attività sessuali e per introdurre qualche cambiamento all’interno delle pagine di “Hustler”. Non più solo carne esposta come sul bancone di una macelleria, ma corpi maschili e femminili inseriti in ambientazioni a sfondo sociale e religioso. Non durò molto la fase mistica e contemplativa di Flynt. I processi si succedevano uno dietro l’altro, sempre con l’accusa di oscenità, intervallati da arresti che duravano lo spazio del tempo per consegnare al tribunale la cauzione che lo riportava libero. Ma ci fu una tragedia: accadde a Lawrenceville, sperduto paese della Georgia. All’uscita dal locale tribunale, un uomo piazzò una pallottola di fucile calibro 44 nella schiena di Flynt. Ce l’aveva con l’ultima edizione del mensile; una serie di fotografie in cui un nero dotato di un sesso di dimensioni impensabili si accoppiava con alcune ragazze dalla pelle bianca. Il vendicatore della supremazia della razza trasformò Flynt in un eroe della libertà di pensiero e in un paralitico. Il proiettile lesionò la spina dorsale e per l’inventore di “Hustler” cominciò la vita su una sedia a rotelle. Con il contorno di dolori lancinanti, che lui curò entrando in modo massiccio nel mondo degli stupefacenti e sottoponendosi a un’operazione dietro l’altra (solo nel 1992 i chirurghi riuscirono a risolvergli il problema). Lui non si perse d’animo neanche di fronte al fatto che la sua vita sessuale era stata spezzata come la sua spina dorsale: cercò e trovò un medico capace di costruirgli un pene artificiale che potesse consentirgli comunque di continuare il suo gioco preferito. La sua mente sfornò provocazioni a getto continuo anche nella nuova situazione di vita. Nessuno sa ancora perché nel 1984 finì in prigione per essersi rifiutato di dire a un giudice da chi aveva comprato un video che dimostrava come gli agenti dell’Fbi avessero organizzato una stangata contro un tale John DeLorean. Il tipo in questione era un riverito riccone californiano, che aveva deciso di impiantare dal nulla una fabbrica di auto di lusso, che era fallito nel giro di pochi mesi, e che si era scoperto essere null’altro che un riciclatore dei soldi del narcotraffico. In quell’occasione, sventolando la bandiera del Quinto emendamento della Costituzione (non fare affermazioni che possono autoincriminarti) si presentò in aula vestito solo di una bandiera americana indossata a mo’ di pannolino. Una nuova puntata in politica la fece nello stesso anno. Si dichiarò un fervente repubblicano e si candidò per ottenere la nomination per la Casa Bianca. Il programma? Semplice e monotematico: eliminare le malattie veneree e l’ignoranza sessuale. A chi gli chiese il perché della scelta repubblicana rispose: “È la più logica: sono ricco, sono bianco, sono un pornografo e sono stato preso a fucilate per quello in cui credo”. La sua campagna si interruppe solo perché arrivò l’ordine del tribunale di portarlo in carcere per la storia DeLorean: doveva scontare cinque mesi di prigione essendo stata rifiutata l’alternativa della cauzione. Il colpo magistrale della sua vita, quello che lo ha reso famoso e ha poi ispirato il film, porta la data del 1987, l’anno in cui morì affogata nella vasca da bagno la sua terza moglie: Althea, molto più giovane di lui, che si era persa dietro alla droga ed era stata poi divorata dall’Aids. “Hustler” prese di mira Jerry Falwell, uno dei campioni della destra religiosa (e repubblicana), raccontando come un giorno in stato di completa ubriachezza avesse perso la verginità in seguito a un rapporto incestuoso con la madre. Storia di cattivo gusto, un modo poco elegante di attaccare un avversario che parlava di Flynt come fosse il diavolo. Ma una provocazione e null’altro. Falwell citò in tribunale il pornografo chiedendo 20 milioni di dollari per avergli causato uno stress emotivo. Ne ottenne solo 200 mila. Ma li perse quando Flynt decise di presentare il suo caso davanti alla Suprema Corte invocando il Primo emendamento, quello che garantisce la libertà di pensiero. I giudici, tutti e otto, senza nessuna esclusione, gli dettero ragione. Flynt diventò il campione della battaglia della libertà di pensiero. Ma come tutti coloro che giocano la loro vita sulle ali estreme dei comportamenti rientrò nei ranghi di editore di riviste hard-core senza mai mettere piede nel mondo che conta dell’editoria, come della politica o dell’economia. Certo la sua casa editrice andava bene, macinando sempre utili, anche se in costante diminuzione: lui però si era cautelato aggiungendo ad “Hustler” la pubblicazione di altre riviste (dalla musica ai computer) e, soprattutto, creando una divisione per la distribuzione di giornali e riviste pubblicate da altre case editrici che gli fruttò sempre più denaro (quando ha venduto questo settore nel 1996 alla Filippacchi-Hachette ha incassato 21 milioni di dollari). Il tran tran di uomo ricco, ma pur sempre attivissimo anche se costretto su una sedia a rotelle che lui aveva fatto placcare in oro a 18 carati, segnò il passare degli anni. Fino al giorno in cui il regista-produttore Oliver Stone non ripescò la sua storia e convinse il regista Milos Forman a lanciarla sul grande schermo. Flynt uscì al di fuori del mondo della pornografia e degli studiosi di diritto interessati al suo caso. Un’abile operazione di marketing lo presentò come il campione della libertà di parola, l’uomo che aveva combattuto una vita perché il porno non fosse relegato nelle cabine di guida dei camion e nelle celle puzzolenti dei commissariati, ma fosse un’attività liberamente praticabile da ogni adulto in grado di decidere cosa fare della propria vita. Le opposizioni dure furono poche e isolate. La leader femminista Gloria Steinem, solitaria, intervenne dalle colonne del “New York Times“: “‘Hustler’ è la rivista che degrada le donne alla bestialità e alla schiavitù sessuale. Sia chiaro: un pornografo non è un eroe”. Poi, esaurita la spinta propulsiva del film, le luci della ribalta, e quelle della polemiche, si attenuarono. Flynt tornò nel suo palazzo di Los Angeles, dove all’ingresso c’è una statua di John Wayne a cavallo. Larry Flynt non è però rimasto a guardare la vita che scorre pensando solo alla sua casa editrice [...]» (Antonio Carlucci, “L’Espresso” 14/1/1999).