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 2004  agosto 26 Giovedì calendario

«Il primo tatuaggio me lo sono fatto da solo a 14 anni, con una macchinetta che mi ero costruito da me

«Il primo tatuaggio me lo sono fatto da solo a 14 anni, con una macchinetta che mi ero costruito da me. Mi sono inciso il logo di un gruppo musicale, gli Einstürzende Neubauten. Doloroso? Beh, abbastanza. Anche se adesso che di tatuaggi ne ho tanti altri ho capito che quello non era dolore...». A parlare così è Nello Rossini, un tatuatore ventiseienne che di strada ne farà tanta e che ha già cominciato a farsi un nome nell’ambiente. Ora lavora a Roma presso vari studi (ad esempio a San Lorenzo e ad Albano Laziale da Edo City), ma la sua carriera (quella vera) è iniziata a 14 anni, quando prese a fare da apprendista in uno studio di tatuaggi. Non è difficile comprendere cosa spinga qualcuno a voler disegnare tatuaggi: è come avere davanti a sé una tela bianca da riempire, sempre nuova, ogni volta diversa, seppure dolente e a volte sussultante. Ma qual è, invece, la ragione che porta un giovane adolescente a infierire sul proprio corpo, a soffrire e a lasciarsi sulla pelle segni che poi non se ne andranno più? Lo abbiamo chiesto a un sociologo, che delle mode e delle tendenze cerca di dare spiegazione, e a dei tatuatori, che di quest’arte antichissima sono amanti e fautori. Ma prima è bene raccontare una storia, breve, di questa ”scrittura del corpo”. «Il tatuaggio è vecchio quanto l’uomo. Per poter indagare sulle sue origini bisognerebbe andare ben oltre i 6.000 anni della storia scritta che conosciamo... potrebbe con orgoglio rivendicare il fatto di essere il primo gesto cosciente a distinguere l’uomo dal regno animale». Così scriveva nel 1925 W.D. Hambly (’The History of Tattoing and its Significance”, trad. ”La storia del tatuaggio e il suo significato”). Luisa Fercioni Gnecchi, moglie di un famoso tatuatore milanese e autrice di libri sull’argomento (’Tatuaggi”, il più famoso, ed. Mursia), dopo aver spulciato e scartabellato per il mondo, ha tracciato una specie di mappa di questa tecnica, perlomeno da quando ne esistono documentazioni. I primi a farsi regolarmente i tatuaggi, a quanto ne sappiamo, furono gli egiziani, 3.000 anni prima della nascita di Cristo: con uno strumento puntuto, introducevano del pigmento sotto la pelle a formare geroglifici. Grandi commercianti, gli antichi egizi esportarono, insieme a tante altre conoscenze, anche l’abitudine di decorare il corpo. Da lì, quindi, è cominciato tutto. Dalle terre sulla riva del Nilo il tatuaggio è arrivato poi in Nuova Zelanda, Polinesia e nei secoli in Giappone, America ed Europa. A cambiare, oltre ai soggetti e alle motivazioni, erano soprattutto le tecniche e gli ingegnosi aggeggi utilizzati. In Giappone ad esempio i tatuaggi si facevano (e a volte si fanno ancora) a mano con un buffo apparecchio: parecchi aghi, in numero variabile, tutti attaccati a un manico di bambù, legno o avorio (adesso, anche d’acciaio inox). Il tatuaggio tradizionale polinesiano (quello che si fa a Samoa, Tahiti, alle isole Marquise) ancora oggi s’ottiene con punte di metallo attaccate a un manico come a formare un pettine: con un secondo manico si batte poi contro la pelle. In Indocina (e ai nostri giorni in Thailandia e Laos) si prendeva invece un manico d’ottone lungo un metro, molto appuntito, e si cominciava a incidere l’epidermide. Le tribù di India e Nord Africa, infine, usavano semplicemente aghi tenuti in mano. Nel 2004 s’usa una macchinetta elettrica, sul modello di quella inventata nel XIX secolo. Ma perché già più di mille anni fa l’arte del tatuare prese piede così velocemente e con facilità. Prova a spiegarcelo Francesco Morace, sociologo, presidente del Future Concept Lab, una società che oramai da 18 anni lavora sul tema delle tendenze e dell’innovazione, con un occhio molto attento alle possibili applicazioni. «Perché s’è capita l’importanza di avere un’osservazione fresca della vita quotidiana, del modo di vestirsi, di cucinare, di entrare in relazione con gli altri... insomma di mettere insieme tutti gli stimoli che arrivano dall’immaginario collettivo». A detta del dottor Morace, per capire cosa c’è dietro alla moda di farsi tatuare, bisogna partire un po’ da lontano: «Il vero grande fenomeno, in questi ultimi anni,» spiega il sociologo «è la centralità del corpo che torna a essere la priorità per la grande maggioranza delle persone». Alla base di quella che viene considerata solo una moda, dunque, ci sarebbe molto di più, qualcosa che è comune a tutte le civiltà, più o meno avanzate: «Certo, non ne facciamo un discorso solamente europeo. Anzi, in alcuni casi sono i Paesi emergenti che sono più sensibili» prosegue Morace. «Fino a qualche tempo fa si pensava che tutto quanto andasse verso la virtualità. Si credeva, cioè, che tutte le nuove tecnologie avrebbero in qualche modo permesso un allontanamento dell’essere dal corpo». In realtà, però, questo non è avvenuto. «Le tecnologie sono importanti» ammette Morace «ma le persone le usano per rafforzare la propria presenza nel mondo e non per renderla meno significativa. E quindi il tatuaggio è uno dei tanti possibili elementi per marcare questa unicità del corpo». E qual è il giudizio che dà di questo fenomeno un sociologo? «Se un tempo il tatuaggio, come il piercing e altre modalità soprattutto giovanili, era un elemento trasgressivo, di forte distinzione nei confronti della normalità, oggi si è fortemente normalizzato. Intanto esistono anche tatuaggi temporanei, che fanno diventare tutto un puro gioco decorativo. E poi, qualora si decidesse per uno indelebile, lo si farebbe per marcare la propria differenza partendo dal corpo, ma in un modo molto più quotidiano, meno trasgressivo di una volta», conclude Morace. Insomma, è tutto legato all’espressività: ognuno di noi vuole esprimersi, raccontare delle storie anche e soprattutto attraverso il proprio corpo. Uno che di storie ne ha tatuate tante è senza dubbio Filip Leu, artista di Losanna, considerato dagli addetti ai lavori uno degli dei dell’Olimpo dei tatuatori, uno di quei due o tre che possono definirsi «artisti del corpo». Filip oggi ha 37 anni, uno studio a Losanna, una passione per i tatuaggi enormi, «perché così posso esprimermi liberamente su grandi superfici di pelle». Nell’81 ha fondato col padre (tatuatore) e la madre The Leu Family’s Iron, sorta d’officina di artisti. Nel tempo libero dipinge (e con lui la moglie Titine, pittrice pure lei). Leu è apprezzato e invidiato da tanti per tecnica e stile. Opera con la macchinetta, ma prima free hands, a mano libera: fa una bozza sulla pelle, poi, con gli arnesi, comincia ad aggiungere particolari su particolari. Eppure, anche Filip mette in guardia chi vuole tatuarsi: «Un tatuaggio si paga in soldi e dolore. Bisogna esserne sicuri». Perché ci sono ancora persone che davanti a un tatuaggio la bocca un po’ la storcono. Eppure, non è più come una volta, che a farsi marchiare erano solo marinai, carcerati e gente di malaffare (vedi box). E anzi, il dottor Morace è convinto che tutto questo dolore possa avere un significato positivo: « un discorso interessante. Ci stiamo dirigendo verso un recupero di valori che sono antichi ma di cui si sente il bisogno: il coraggio, la capacità d’affrontare situazioni difficili ed eventualmente di sofferenza». Siamo sicuri che sia una cosa positiva? «Sì, perché è una reazione a quest’idea di anestetizzare la società. il recupero di un momento di sofferenza, il riappropriarsi del proprio dolore con onore, coraggio. riuscire a farsi carico di momenti difficili opponendosi al sogno d’eliminare il dolore dalla vita, una sorta d’anestesia permanente. Il virtuale, invece, sembrava proporci un mondo aleatorio, come un videogioco dove le cose avvengono e quasi non ce ne accorgiamo...». E non è un caso che, in questo momento, anche il cinema riprenda il tema dell’onore e del coraggio, raccontando di compagnie di hobbit coraggiosi e di combattimenti epocali (come ne ”Il signore degli anelli”); di arti marziali che portano a una morte onorevole (vedi ”L’ultimo samurai”), di sofferenze e fustigazioni che, corporee più che mai, per fortuna servono almeno a salvarci da tutti i nostri peccati. Giusy Cinardi