Nicola Nosengo, Macchina del Tempo, luglio 2004 (n.7), 25 agosto 2004
Mai come in fatto di medicina, la fantascienza rischia di suscitare illusioni pericolose. Nella seconda puntata della saga di ”Guerre Stellari” (’L’impero colpisce ancora”) il protagonista Luke perde la mano nel duello col perfido Darth Vader
Mai come in fatto di medicina, la fantascienza rischia di suscitare illusioni pericolose. Nella seconda puntata della saga di ”Guerre Stellari” (’L’impero colpisce ancora”) il protagonista Luke perde la mano nel duello col perfido Darth Vader. Ma prima della fine del film ha già una mano nuova di zecca, una sofisticata protesi elettronica che gli permette di riprendere da subito a maneggiare la spada laser. Purtroppo, per chi subisce l’amputazione di un arto a seguito di un incidente o di una malattia, la realtà è diversa. Perdere un braccio o una mano è una menomazione terribile, che impedisce una vita pienamente normale. La medicina spera da molto tempo di poter offrire a queste persone un arto nuovo in sostituzione di quello perso, che consenta di recuperare quasi completamente le funzionalità di una vera mano. Ora, forse, quel sogno si sta avverando. Alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, un gruppo di ricerca diretto da Paolo Dario sta lavorando al progetto Cyberhand, che mira a costruire il primo ”braccio bionico” in grado di riprodurre i movimenti di una mano vera ed essere controllato direttamente dal sistema nervoso centrale. Cyberhand vede i ricercatori del Sant’Anna impegnati insieme al Centro Inail Rtr di Viareggio, al Centro Nacional de Microelectronica di Barcellona, al Fraunhofer Institut di St. Ingbert in Germania, all’Università di Barcellona e al Center for Sensory-Motor Interaction dell’Università di Aalborg, in Danimarca. Il progetto, iniziato nel 2002, ha una durata di 3 anni. Per progettare Cyberhand, il gruppo di ricerca è partito dai limiti delle protesi esistenti. A disposizione della chirurgia, oggi, ci sono mani che possono aprirsi e chiudersi per afferrare oggetti, comandate dai segnali elettromiografici (Emg), ovvero quelli che provengono dai muscoli. Grazie a elettrodi che rilevano i segnali prodotti dall’attività muscolare, il paziente può, contraendo i muscoli del braccio, chiudere la mano meccanica per afferrare un oggetto o aprirla per lasciarlo andare. Il piccolo motore che muove la mano è azionato da batterie ricaricabili, con una durata di circa 24 ore. «Ma diverse ricerche mostrano che tra coloro che hanno queste mani artificiali, dal 30 al 50 per cento non le usano regolarmente», spiega Dario. «I principali problemi che limitano l’uso di questo tipo di protesi», prosegue il ricercatore pisano, «stanno nella scarsa funzionalità e nell’assenza quasi totale di sensibilità». Infatti, mani artificiali come queste consentono per lo più uno o due movimenti e quindi una manualità molto innaturale. Inoltre, utilizzare queste protesi richiede un lungo addestramento della persona e molta concentrazione ogni volta che s’afferra qualcosa. Soprattutto, la difficoltà di controllo è dovuta all’assenza della sensazione tattile, che fa da informazione di ritorno e permette di dosare forza e ampiezza di movimenti. Dunque, anche se protesi di questo tipo sono di grandissimo valore per chi le porta, sono ben lontane dalle funzionalità di una vera mano. Cyberhand nasce con l’obiettivo decisamente ambizioso di superare questi limiti. «Vogliamo realizzare una mano artificiale che permetta addirittura di maneggiare le forbici, una delle attività manuali più difficili da compiere», spiega Lucia Beccai, ingegnere del gruppo di ricerca. Soprattutto, una mano che venga manovrata dalla persona che la porta con la stessa disinvoltura con cui si usa una mano vera, senza apprendere tecniche particolari. Insomma, che diventi parte integrante del corpo della persona. Per prima cosa, Cyberhand sarà esteticamente simile a una mano vera. Ogni dito verrà dotato di un motore controllato in modo indipendente: il che significa un gran numero di dispositivi e di batterie da stipare in uno spazio molto piccolo, cosa non banale perché comunque la mano non dovrà superare un certo peso (600 grammi, più o meno il peso di una mano vera), e il costo della protesi deve restare paragonabile al costo di quelle attuali. «Nella prima fase, che si concluderà quest’anno, punteremo a realizzare un prototipo azionato dai segnali elettromiografici, come avviene per le protesi attuali», spiega Beccai. A quel punto inizierà però la seconda e più ambiziosa parte del progetto. Collegare direttamente l’arto al sistema nervoso, in modo che possa esser mosso direttamente dagli stessi nervi che prima controllavano la mano vera: passare cioè all’uso dei segnali elettroneurografici (Ens), quelli che corrono lungo i nervi. Nel braccio del paziente dovranno esser impiantati elettrodi, ancora in fase di studio, in grado d’interfacciarsi direttamente ai nervi per raccoglierne l’attività elettrica. Da qui, un sistema di telemetria (cioè di trasmissione radio) porterà i segnali fino ai motori della mano, in modo da ridurre al minimo la presenza di fili elettrici. Progettare questi elettrodi è, come è facile immaginare, la parte più complicata del progetto. Se ne sta occupando il gruppo guidato da Ronald Riso all’Università di Aalborg. Per ora la soluzione allo studio è quella di un elettrodo a forma di «colletto» che avvolge le fibre nervose, che a loro volta comprendono diverse migliaia di neuroni. I volontari a cui finora sono stati impiantati questi elettrodi hanno descritto una sensazione simile a una vibrazione, dovuta probabilmente al fatto che molti neuroni vengono stimolati contemporaneamente. Un approccio alternativo è invece tentato dai ricercatori di Barcellona, che provano a far crescere i singoli neuroni nei minuscoli fori di un elettrodo a «setaccio». A quel punto, sarebbe possibile stimolarli individualmente. Lo scopo di questi elettrodi, quando saranno completati, non sarà solo quello di portare segnali nervosi alla mano, ma anche di raccoglierli. In assenza di un adeguato feedback percettivo, come si è già detto, è impossibile utilizzare una parte del corpo con la destrezza normale, quella che permette appunto di maneggiare le forbici. Dobbiamo sentire con quanta forza stiamo stringendo una cosa per evitare di lasciarcela sfuggire. Oppure avere informazioni precise sulla posizione nello spazio del nostro arto. Per questo la Cyberhand verrà dotata di sensori in grado di registrare le sensazioni tattili e rimandarle al sistema nervoso perché siano percepite in modo più realistico possibile. Oltre al primo gruppo di elettrodi, quindi, ve ne sarà un secondo che tradurrà le informazioni artificiali generate dalla mano in segnali, inviati ancora per mezzo di onde radio ai nervi per arrivare al sistema nervoso centrale. La percezione per utilizzare la mano in modo naturale è non solo quella esterocettiva (le sensazioni tattili), ma anche quella propriocettiva: tutte quelle informazioni che vengono da muscoli, tendini e legamenti, che danno al cervello la percezione della posizione nello spazio di una parte del nostro corpo. Questo è fondamentale, ad esempio, per sapere dov’è la mano senza doverla guardare. La soluzione scelta dai ricercatori di Pisa per restituire questo tipo di sensazione è quella di mettere sensori di posizione in tutte le articolazioni delle falangi delle dita (che misurino la tensione dei cavi all’interno delle dita stesse) e un accelerometro all’interno del palmo. Così il cervello riceve informazioni su posizione e postura della mano, che possono servire a correggere in tempo reale e in modo incosciente (come avviene normalmente) il gesto compiuto per afferrare un oggetto. Lucia Beccai modera però gli entusiasmi e ricorda che questo progetto è ancora in fase sperimentale, che i problemi da risolvere sono ancora molti. «Rivolgendoci a persone che hanno subito un danno gravissimo dobbiamo essere chiari ed evitare false illusioni», dice la ricercatrice. «Fare previsioni su quando una mano bionica di questo tipo sarà effettivamente a disposizione della chirurgia è ancora assolutamente prematuro». Nicola Nosengo