Federico Ferrazza, Macchina del Tempo, luglio 2004 (n.7), 25 agosto 2004
Un po’ come James Dean nel suo film più famoso, ”Gioventù bruciata”. Correre in auto dà una sensazione di onnipotenza, di essere i più forti di tutti, i padroni del mondo
Un po’ come James Dean nel suo film più famoso, ”Gioventù bruciata”. Correre in auto dà una sensazione di onnipotenza, di essere i più forti di tutti, i padroni del mondo. La velocità, infatti, rappresenta per molti una sfida: vincerla può significare essere primi su un podio che però esiste solo nella nostra testa. Un meccanismo psicologico che scatta per diversi fattori, primo fra tutti la voglia di rischiare: «Ci basta pensare all’espressione di chi corre per professione, come il motociclista Valentino Rossi, o il pilota di Formula 1 Michael Schumacher, per leggere nei loro occhi quella vibrante sensazione di sfida alla vita, di superamento del limite» spiega Aldo Carotenuto, professore di Psicologia della personalità presso l’Università di Roma La Sapienza. Ma a cosa è dovuta questa spinta al rischio? «Difficilmente, nel nostro procedere quotidiano, si avverte la sensazione netta di poter gestire, di poter fare della propria vita ciò che si vuole», va avanti Carotenuto: «Generalmente demandiamo agli altri o agli eventi la responsabilità delle nostre scelte, e allora possiamo leggere in questa necessità di correre un bisogno che ci rivitalizzi, la possibilità di voler e poter sperimentare il rischio. L’essere umano, ci insegna Freud, vive in un continuo equilibrio tra la pulsione di vita e la pulsione di morte, potremmo dunque interpretare il senso di onnipotenza provato, quando la velocità riempie le nostre membra di adrenalina, come un momento in cui si ha tra le mani la possibilità di scegliere, finalmente, in modo diretto e primitivo, se vivere o morire. Uscire indenni da questo rischio dopo aver sfidato e aver corso incontro alla morte ci restituisce un senso di onnipotenza, di rinvigorimento energetico quasi fossimo rinati». Insomma, sfidare i propri limiti e quelli della propria vettura contribuisce alla sensazione di onnipotenza. Ma non è tutto. La maggior parte delle persone ha infatti con la macchina un rapporto proprietario/oggetto posseduto non riscontrabile con altre cose. Ne sono un esempio le espressioni che s’utilizzano riferendosi a una vettura (ad esempio «mi hanno tamponato») che tendono a identificare il nostro corpo col veicolo. «Quando saliamo su un’auto» dice Pierenrico Andreoni, docente di Psicologia del lavoro e dell’organizzazione all’Università di Ferrara e autore del libro ”Libertà di andare. Antropologia dell’automobilista” (Franco Angeli editore), «diventiamo un tutt’uno con la vettura. Nel momento in cui si monta in macchina anche le persone più calme possono trasformarsi in ”prepotenti della strada”. Un senso di possesso così estremo, come è quello che si ha con la propria auto, porta infatti a prevaricare sull’altro e difficilmente chi ha una Porsche, anche se non ha fretta, in autostrada resiste a star dietro una Cinquecento». Anche perché l’auto serve per esibirsi. Lo dimostra un sondaggio condotto nel 2002 dalla rivista ”Gentleman”, in collaborazione con un pool di psicologi: il 52 per cento degli italiani considera l’auto «uno strumento di seduzione», per il 40 per cento rappresenta «uno status symbol», mentre il 31 per cento confessa che più semplicemente si tratta di una passione «che non ha bisogno di essere spiegata». Ma qual è la caratteristica che si guarda per prima in una macchina? Nessun dubbio: velocità e potenza (52 per cento degli intervistati) e design (44 per cento). Gli automobilisti, però, non sono solo amanti della velocità in sé: il 41 per cento prova un brivido particolare nei sorpassi o nelle curve pericolose (37 per cento). «L’esibizione è uno dei comportamenti umani più naturali, potremmo dire spontanei» afferma Carotenuto. «Mostrarsi, cioè offrire allo sguardo altrui una versione del proprio modo d’essere che ci piace che essi colgano, è atteggiamento comune, quasi immediato. Non a caso a essere più eloquenti, a volte fino a essere esageratamente marcate, sono proprio quelle manifestazioni comportamentali cui il soggetto attribuisce una connotazione positiva, un valore significativo. Anche il correre in automobile può rientrare in questa forma di pavoneggiamento tutta umana. E non a caso è, questa, una caratteristica soprattutto maschile, poiché alla velocità spesso è associata l’immagine di una potenza a sua volta legata al perfetto controllo delle emozioni – in questo caso la paura – e dell’ambiente che rientra in un preciso cliché di ruolo dell’uomo». D’altronde la passione per i motori e la velocità ha radici piuttosto antiche su cui non hanno solamente discusso psicologi e scienziati, ma anche intellettuali e artisti. L’automobile, infatti, viene considerata da molti addirittura il primo vero elemento di libertà di massa. Il primo, cioè, che ha consentito a chiunque ne possedesse una di andare in qualsiasi luogo in qualsiasi momento. Un argomento che è stato oggetto anche di manifesti di movimenti culturali, per esempio quello Futurista. All’inizio del secolo scorso, infatti, Filippo Tommaso Marinetti, pubblicando sul giornale francese ”Le Figaro” il Manifesto Futurista al quarto punto scriveva: «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia». «Tutto questo» dice Andreoni «rispecchia un po’ la nostra società, dove il modello è: chi ha più cose ha più potere. Ecco perché se si possiede una macchina costosa e veloce ci si sente autorizzati a considerare ”inferiore” chi invece ha un’utilitaria». La macchina, poi, ci nasconde, perché non siamo direttamente noi a ”sfidare” gli altri. Un fattore che spiega anche l’eccessiva aggressività che molte persone dimostrano al volante. «Esiste un sistema di regole, o meglio di abitudini codificate, delle cornici di riferimento nelle quali l’aggressività pare trovare una sua esplicita possibilità di manifestarsi» dice Carotenuto. «La guida costituisce sicuramente uno di questi microsistemi all’interno dei quali pare camuffarsi una certa liceità sociale o anche licenziosità. Il contesto del mondo automobilistico, quale metafora di una condizione esistenziale più ampia, consente, infatti, di esplicitare il proprio modo d’essere in altri segmenti della vita più controllabili e definibili nello spazio e nel tempo». Salire in macchina, inoltre, può significare isolarsi dal resto del mondo. E la possibilità di fare quello che altrimenti in mezzo agli altri sarebbe più difficile compiere. Spiega Carotenuto: «Si può correre per andare incontro al proprio destino, tentare i propri limiti, sperimentare i confini della propria paura, sfidare la profondità della propria voglia di vivere – o di morire – ma, a volte, anzi quasi sempre, lo si fa soltanto perché si possiede una soggiacente sensazione di poter invertire il processo. Frenare, per esempio, e annullare tutto, azzerare il rischio e rivolgersi alla tranquillità dei piani lenti. Nella vita reale i freni non esistono, o poche sono le possibilità che possediamo per rallentare difensivamente quando le nostre emozioni ci conducono lungo una china differente e troppo veloce per poter essere adeguatamente gestite. Credo che la sensazione, l’ebbrezza della velocità, sia vivibile – e perciò ricercata e spesso avidamente rincorsa – quasi solo in contesti limitati, ambiti in cui è possibile in ogni caso tirarsi indietro, o almeno provare a farlo». Una sensazione che non sperano mai di provare i piloti di professione, sia gli automobilisti che i motociclisti. Anzi. Il loro ”compito mentale” è quello di essere il più razionali possibile, ma anche di assecondare gli aspetti positivi del senso di onnipotenza che dà la velocità. «Come per esempio la percezione di avere un grosso controllo del mezzo, dovuta al sentire la macchina una parte del proprio corpo» spiega Alessandra Papasogli, psichiatra e psicoterapeuta presso Formula Medicine, uno dei pochi centri al mondo (si trova a Viareggio) specializzato nell’assistenza e nella preparazione medico-atletica negli sport motoristici (vedi box sopra): «In condizioni normali la velocità consente di tenere, per un periodo piuttosto lungo, alti i livelli di concentrazione e di attenzione». Per raggiungere gli standard ottimali di una gara, gli esperti di Formula Medicine hanno elaborato, in maniera empirica, alcune prove che allenano il cervello. il caso del test del semaforo. Con in mano un pulsante, i piloti devono schiacciare il bottone quando scatta il verde: un esercizio che viene fatto sia in condizioni normali che sotto sforzo. «Il nostro prossimo passo» continua Papasogli «sarà quello di capire cosa succede a livello biologico nel cervello quando una persona corre in auto o in moto. Per questo abbiamo avviato un progetto di ricerca con l’Università di Pisa». Federico Ferrazza